Lutti, assassini!, disonore la maledizione dei Presidenti di Gabriele Romagnoli

Lutti, assassini!, disonore la maledizione dei Presidenti Lutti, assassini!, disonore la maledizione dei Presidenti IL PRIMO DESTINO D'AMERICA LM.,. NEW YORK m ANNO era il 1987. Ronald Reagan sorrise e disse: «Da quando sono entrato alla Casa Bianca mi hanno messo due auricolari, ho avuto un'operazione al colon e una alla prostata, scoperto un cancro alla pelle e mi hanno sparato addosso. Il bello è che non sono mai stato meglio». Ma lui era un attore e un ottimista. Poteva prendere la maledizione della presidenza, indossarla come un abito di scena e strappare un applauso. Buona ricetta per la sopravvivenza, personale o politica, giacché 209 anni di storia insegnano che è diffide andarsene dalla Casa Bianca vivi, felici e immacolati. La parabola dei presidenti rende evidente quali cambiali il destino pretende per quel che concede. Quattro-otto anni di potere in cambio di sofferenza, disonore e, talora, della vita stessa. Quattro assassinati, altrettanti morti di malattie, tre divenuti vedovi, cinque che persero almeno un figlio, tre che sopravvissero a un attentato, uno costretto a dimettersi, due incriminati. E oggi, inserendosi nella scia di Andrew Johnson (1865-1869), il solo presidente a subire l'impeachment prima di lui, William Jefferson Clinton può sperare di salvarsi, come lui, al Senato, per un voto, ma certo non può invidiargli altro, giacché il suo predecessore perse tre figli (uno, ucciso dall'alcol, nell'ultimo anno di presidenza; un altro cadendo da cavallo durante la guerra; un terzo di polmonite a 27 anni) e, lavata l'onta dell'incriminazione, morì d'infarto. C'è un destino di grandezza anche nella sciagura, oltre i cancelli di Pennsylvania Avenue, un fato che aspetta all'ingresso e accompagna all'uscita cambiati e piagati, impedendo di varcare la soglia, il giorno del ritorno nel mondo, senza il carico di una pena, umana o giuridica. E' qualcosa che chi ha dimestichezza con le stelle legge senza indugio. Mentre il futuro presidente Warren Harding (1921-1923) era impegnato nella campagna elettorale, la moglie Florence, detta «la Duchessa» visitò un'astrologa di Washington che le predisse: «Suo marito diventerà presidente. E morirà presidente». Come puntualmente accadde il 2 agosto del 1923, in circostanze non chiarite, giacché «la Duchessa» si oppose all'autopsia e seppellì con lui la verità sugli scandali finanziari, sui favori fatti agli amici, sulla figlia illegittima nata dalla relazione con Nan Britton. Prima di lui, erano caduti sul campo della presidenza (di morte naturale): William Harrison (1841-1841), che durante il discorso inaugurale buscò un'influenza e ne morì un mese più tardi; Zachary Taylor (18491850) che una mattina di luglio prese troppo sole, seduto alla base di un monumento e cinque giorni dopo se ne andò annunciando: «Sono pronto». Dopo, ancora, toccò a Franklin belano Roosevelt (1933-1945), stanco di guerra al ritorno da Yalta, che si accasciò nello studio, devastato da un'emorragia interna, mentre un pittore gli stava facendo il ritratto e lui stava scrivendo: «Dobbiamo andare avanti, con la forza della fede». Ad aprire la galleria degli assassinati fu Abraham Lincoln (1861-1865) ucciso da un attore, poche ore dopo aver detto: «Credo ci siano persone decise a uccidermi e non dubito che ci riusciranno». Lo seguì James Garfield (1881-1881): gli sparò l'anarchico Charles Gaiteau, scelse l'arma (pistola inglese calibro 44) perché pensava sarebbe stata bene nella bacheca di un museo, non fu mai ritrovata, dichiarò al processo, e con ragione, che i veri assassini erano stati i medici, autori di danni irreversibili nel tentativo di rimuovere il proiettile mentre la first lady Lucretia urlava: «Presto, portate del ghiaccio, quest'afa sta uccidendo il presidente!». Toccò poi a William McKinley (1897-1901), colpito a morte dall'uomo a cui stava stringendo la mano, ma ancora in grado di suggerire alla segretaria: «Non ditelo a mia moglie». Concluse la lista John Kennedy (1961-1963), al quale invano il senatore Fulbright disse: «Dallas è un posto molto pericoloso, io non ci andrei, non ci vada neppure lei». Inutile, poiché la poesia preferita di Jfk era «Ho un appuntamento con la morte» di Alan Seeger. Non poteva, dunque, scampare, come fece, per primo, Andrew Jackson (1829-1837), l'unico presidente nato con la camicia: l'imbianchino Richard Lawrence, che lo considerava il solo ostacolo per arrivare al trono d'Inghilterra, gli sparò con due fucili diversi e entrambi s'incepparono (possibilità: 1 su 125mila). Theodore Roosevelt (1901-1909), colpito a Milwaukee, fu salvato invece dall'astuccio per gli occhiali e dalla inusuale consistenza (50 fogli) del discorso che aveva nella tasca interna e tenne ugualmente, per minuti 80. Uscirono dalla Casa Bianca indenni ma con un figlio in meno: Abraham Lincoln, Franklin Pierce (il terzo figlio morì a due mesi dall'inaugurazione e la first lady Jane ne concluse che era un segno per impedire al marito di distrarsi, lui invece la intese come punizione divina per i suoi peccati e non giurò sulla Bibbia, ritenendosi indegno), Andrew Johnson, Theodore Roosevelt e Calvin Coolidge (Calvin jr, sedicenne, cadde giocando a tennis nel giardino presidenziale, un dito del piede si ferì e infettò e morì di tetano). Rimasero vedovi durante la presidenza: John Tyler (ma si risposò pure, con la ricca e giovanissima ori'ana di un notabile morto nell'esplosione di una cannoniera inaugurata dal presidente stesso), Chester Arthur e Woodrow Wilson. Richard Nixon è andato via con tutta la famiglia, ma con il sovraccarico del disonore. Ora questa eredità di sangue, dolore e scandali è tutta sulle spalle di William Jefferson Clinton. Non c'è modo di scansarla. Uscire di scena con dignità è un'impresa. Uno di quelli che ci riuscirono, Theodore Roosevelt, prima di farlo, disse: «Per favore, spegnete le luci». Gabriele Romagnoli Duecento anni di storia insegnano che è difficile andarsene dalla Casa Bianca vivi, felici e immacolati Quattro ammazzati, quattro morti di malattia, tre divenuti vedovi cinque che persero un figlio...

Luoghi citati: Inghilterra, Milwaukee, New York, Pennsylvania, Washington, Yalta