Bobbio: una guerra illegìttima

Bobbio: una guerra illegìttima ^llllllli Nel '91 parlò di conflitto «giusto»: «Oggi la situazione è diversa, c'è un atto unilaterale» Bobbio: una guerra illegìttima «Ma se Saddam cadrà, sarà stata efficace» LE BOMBE SU BAGHDAD L'aula dell'assemblea Onu al Palazzo di Vetro di New York ATORINO NCORA la guerra in Medio Oriente, e ancora gli Stati Uniti come gendanne del mondo, applaudito o esecrato. «Bisogna intendersi: ragionando realisticamente questa egemonia americana è l'effetto delle circostanze storiche. Della storia occidentale del XX secolo. Così radicata da manifestarsi anche in un momento di grande debolezza come quello dell'impeachment». Norberto Bobbio parla lentamente, gli occhi socclùusi, nel tepore pacato del suo studio invaso dalle prime ombre della sera, e rovescia il tradizionale modo di giudicare: di fronte all'ondata di emotività scatenata dall'attacco americano, il filosofo vuole innanzitutto mettere in luce i dati di fatto, distinguendoli dai giudizi di valore. «Io parlo da studioso del pensiero politico, non prò o contro l'America». Nel gennaio '91, al tempo di Desert Storni, Bobbio aveva evocato in un'intervista al Tg3 il concetto di «guerra giusta»: giusta non nel senso etico ma in quello giuridico, in quanto «fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa». Questa posizione aveva suscitato un serrato confronto anche con alcuni dei suoi allievi, documentato in un librino licenziato quando il conflitto era ancora in corso (Una guerra giusta?, ed. Marsilio). Otto anni dopo siamo tornati dal filosofo, che in questa intervista affronta tutti i nodi che si addensano nel grande tema pace/guerra: la legittimità e l'efficacia dell'azione bellica, il ruolo effettivo dell'Orni, il peso degli Stati Uniti, i problemi delle democrazie di fronte a un Saddam, le possibilità e i limiti del pacifismo. L'America ha attaccato di nuovo l'Iraq, in nome della pace. Professor Bobbio, qual è questa volta la sua posizione? Da che parte sta? «E' un tema molto complicato. Io ritengo che prima di giustificare o ingiustificare un'azione bisogna cercare di comprenderla fino in fondo: io non mi considero un esperto e in questo senso non mi sento di rispondere con un sì o con un no. Se mai posso porre do mande, prima di tutto a me stes so. Il mio punto di partenza è che un'azione politica può essere giù dicata da due punti di vista di versi: della sua legittimità e della sua efficacia. Otto anni fa, dopo l'invasione del Kuwait, io ero en trato in medias res, fin troppo. In quel caso c'era stata una delle più gravi violazioni del diritto inter nazionale: l'aggressione di uno Stato da parte di un altro. Sulla legittimità dell'intervento milita re non mi pareva si potesse di scutere. Tuttavia ero stato molto criticato. Semmai si poteva di scuterne l'efficacia, infatti i guerra finita ti domandavi che senso avesse avuto quel macello Oggi la situazione è diversa: l'attacco americano si può conside rare illegittimo, perché non è sta to deciso da un organo super par tes, ma è un atto unilaterale». Potrebbe comunque essere efficace? Se Clinton abbai tesse Saddam, le opposizioni irachene si sollevassero e in Iraq si sviluppasse una democrazia, non si potrebbe considerare tutto ciò un'azione positiva? «Certo, un'azione punitiva può essere legittima senza essere efficace, ma può anche rivelarsi efficace senza essere legittima. In tal caso, tende a legittimarsi da sé attraverso il principio di effettività: ex facto oritur ius. Naturalmente l'ideale sarebbe che un'azione fosse insieme legittima e efficace. Ma può darsi pure la quarta possibilità: né legittima né efficace. Del resto, anche D'Alema, intervistato dalla Stampa subito dopo l'attacco americano, ha parlato di "inutilità"». Una crisi internazionale non dovrebbe trovare nelle Nazioni Unite la sede naturale dove essere affrontata e pos¬ sibilmente risolta? «In realtà abbiamo avuto per cinquantanni l'equilibrio del terrore. Per tutto questo periodo la pace era salvaguardata non dall'Onu ma dalle due grandi potenze che si guardavano in cagnesco, senza osare sfidarsi. La pace era fondata sulla sfiducia reciproca: è il mutuus metus di cui parla Hobbes. Questa situazione è finita con la vittoria strepitosa degli Stati Uniti, che hanno vinto la guerra fredda senza neppure il bisogno di combattere. L'Unione Sovietica si è ritirata di fronte alla sproporzione delle forze. Una volta si parlava di potenze, adesso non si può neppure più parlare di superpotenze, ma di una "strapotenza", direi una "ultrapotenza", che ha qualcosa di eccezionale». Secondo molti, veramente, ha anche qualche cosa di eccessivo, per il ruolo che si è arrogata sostituendosi all'Onu... «Ma io vorrei far riflettere tutte le persone che amano o non amano gli Stati Uniti: l'America è o non è stata la parte determinante nei tre grandi conflitti che si sono combattuti in questo secolo? Wilson, Roosevelt e Reagan, i tre presidenti, sono stati i personaggi decisivi di una storia dal finale vittorioso: Wilson nella prima guerra mondiale, Roosevelt nella seconda e Reagan nella guerra fredda. E se vogliamo parlare di meriti, lo sbarco in Normandia, nel giugno '44, è stato uno degli episodi militari più giganteschi nella storia dell'umanità. Forse la più grande impresa dal punto di vista strategico, della potenza messa in campo, delle difficoltà affrontate. E chi era il capo dell'esercito alleato? Eisenhower». Tutto ciò deve considerarsi una giustificazione delle pretese egemoniche americane? «Io vorrei prescindere dai giudizi di bene o di male: il ruolo mondiale degli Stati Uniti è la conseguenza delle vicende del XX secolo. La loro egemonia è come se fosse dentro le cose stesse. Tanto che oggi questo atto di forza avviene nel momento di massima debolezza, e minima credibilità, di colui che lo compie. Cionono- stante è alla Casa Bianca, non al Palazzo di Vetro, che si va per risolvere le controversie. Sebbene Clinton sia un personaggio discutibile, è da lui che Arafat e Netanyahu sono andati nei giorni scorsi. Riflettiamo per un momento che cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti, insieme coi loro alleati, non avessero vinto le tre guerre mondiali. Sarebbe stato meglio per il futuro dell'umanità che avesse vinto Hitler? Sarebbe stato meglio che avesse vinto Stalin?». Se questa è la situazione, secondo una visione realistica delle cose, quale tipo di pace può sperare di avere il mondo? Dobbiamo pensare che la pace sia soltanto un periodo di tregua fra guerre, combattute o minacciate? «Raymond Aron, in un celebre saggio, Paix et guerre entre le nations, distingue tre tipi di pace: di potenza, di impotenza e di soddisfazione. La pace di impotenza potrebbe essere quella assicurata dall'equilibrio del terrore, in cui ciascuno dei contendenti ha ragione di temere la guerra. La pace di potenza è esattamente il contrario: c'è una delle potenze che è sicura di avere la superiorità sulle altre. Si può anche chiamarla, secondo ulteriori sottili distinzioni, di egemonia o d'impero. E' una pace imposta da qualcuno, l'opposto di quella concordata. La pace di soddisfazione è invece quella che contraddistingue il sistema europeo occidentale, fondata su rapporti di fiducia reciproca in un gruppo di nazioni. A me pare che, in conseguenza dell'attuale strapotere americano, la pace di Clinton sia quella che si può correttamente chiamare una pace d'impero». Lei pensa che il mondo debba per così dire rassegnarsi alla pace imposta? «Purtroppo i tempi non sono ancora maturi per una paco che non sia d'impero, a causa della debolezza deli'Onu. D'altronde, la pax romana era una tipica pace d'impero. Allo stesso modo si è potuto parlare, per un certo periodo della storia europea, di una pax britannica. Anche i sovietici perseguivano la loro pace d'impero: i Partigiani della Pace sostenevano che il mondo sarebbe stato pacificato quando fosse stato sovietizzato. E' la pace nel senso negativo della parola. Dopo il disastro della seconda guerra mondiale, l'Onu aveva proprio il compito di superare la fase della pace d'impero, anche se si può sostenere, per come era formato il Consiglio permanente di sicurezza, che era pur sempre la pace dei vincitori». Quale peso può avere il pacifismo di natura etico-religiosa, quello di Capitini, della non violenza e delle marce della pace, cui lei stesso ha partecipato? «Io penso che bisogna perseguire tutte le forme di pacifismo, poiché è difficile che possa esserci pace vera senza che ci sia una profonda trasformazione dell'uomo dal punto di vista etico, sebbene dopo duemila anni di cri- stianesimo sia realistico chiedersi se la trasformazione sia possibile. Però dobbiamo essere consapevoli di un limite del pacifismo. Via via che cresce il numero dei pacifisti che adottano il principio della assoluta non violenza, ci troviamo di fronte a questa alternativa: o il principio diventa universale o diventa un vantaggio per i violenti. Se infatti si estende il campo dei non violenti, non è forse inevitabile che ne traggano vantaggio proprio i violenti? Se tutti gli Stati del mondo si disarmassero, tranne uno, quell'unico diventerebbe padrone dei mondo. E' bene che ci sia il pacifismo etico-religioso, come manifestazione positiva dell'animo umano, ma debbo ripetere che le azioni umane si giudicano dal punto di vista non soltanto della loro bontà ma anche della «La loro egemonia e la conseguente "pace d'impero" sono l'effetto delle circostanze storiche del XX secolo» «Lui ha vinto la guerra fredda senza neppure combattere L'Urss si ritirò per la sproporzione delle forze» n «Ma cosa sarebbe accaduto se gli Usa non avessero vinto le guerre mondiali? Sarebbe stato meglio che avesse vinto Hitler?» A Qui sopra il presidente del Consiglio Massimo D'Alema Nelle foto sotto il titolo da sinistra a destra il presidente Usa Bill Clinton Ronald Reagan e Adolf Hitler REAGAN GLI STATI UNITI HITLER L'aula dell'assemblea Onu al Palazzo di Vetro di New York