La congiura di DeLay il terribile

La congiura di DeLay il terribile La congiura di DeLay il terribile 7/ regista della caccia al Presidente L'IMPLACABILE NEMICO NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO Hanno vinto i congiurati, per ora. Sulle scale del Campidoglio giace, sfinito e agonizzante, ma ancora non privo di sussulti, il corpo di William Jefferson Clinton, incriminato a morte, disonorato a vita. Una torma di repubblicani esulta, perché ha colpito il re. Stanno tutti riparati alle spalle di un uomo piccolo ma ferale. Non «Tu quoque, Brute, fili mi!», che parentele non ce ne sono, ma «You, DeLay!» esclama Clinton, cadendo. «You, Delay!». Questa è la storia di come un omino che ama le battaglie perse ha vinto quella più difficile, di come ha rimesso insieme un gruppo allo sbando e l'ha guidato, senza scrupoli e con shakespeariana ferocia, davanti al re, sacrificando il più importante dei suoi uomini nell'ultimo assalto, pur di raggiungere lo scopo. Alle idi di novembre, una vita fa, il re fece l'errore di credersi al riparo dalla congiura. Il popolo gli aveva dimostrato il suo appoggio, i democratici avevano avuto, nelle elezioni di metà mandato, più voti di quanti si sarebbero mai aspettati. Newt Gingrich, lo speaker repubblicano, che aveva cercato di riattizzare la congiura a fini elettorali, aveva pagato con la vita (politica), ritirandosi dietro le quinte. Kenneth Starr, l'implacabile accusatore, era finito a sua volta sotto inchiesta e aveva conosciuto l'onta della deposizione e quella dei talk show. Monica Le- whisky, la cortigiana che aveva suscitato il putiferio, vendeva già le sue memorie a un biografo di principesse sfortunate, sentendosi al capolinea della favola. Nei sondaggi, la popolarità di Clinton saliva e i favori per una censura che chiudesse l'incidente senza conseguenze, pure. Sentendosi al sicuro nella sua reggia, il re cominciò a sbagliare. Rifiutò la censura, contando di uscire senza macchia dal fango; fermò in volo gli aerei diretti in Iraq, sapendo che li avrebbe poi spediti comunque e nel momento sbagliato; giudicò che nessuno fosse rimasto, in campo nemico, in grado di guidare la congiura. Non si accorse di Tom DeLay. Tra i repubblicani l'astro nascente pareva Bob Livingston, altero ex avvocato della Louisiana, speaker designato. Ma qualcuno, più furbo di Clinton, avrebbe visto i fili. Muovevano Livingston e finivano tra le mani di DeLay. E quando i congiurati si trovarono per decidere il da farsi dopo la batosta, pronti ormai alla resa, l'omino venne fuori dall'ombra e disse: «Andiamo avanti». Nessuno si stupì. L'aveva fatto altre volte, sempre, quando chiunque si sarebbe fermato. La faccia di cera, i capelli come un parracchino, il sorriso per sbaglio, Tom DeLay, detto Martello per i suoi modi compulsivi, aveva una specializzazione: pesticidi. Nato in Texas, cresciuto in Venezuela, studente di chimica, aveva finito per comprarsi una fabbrica di pesticidi. L'unica elezione che abbia mai perso fu quella per l'Associazione Texana Venditori di Pesticidi. Dopo, con l'appoggio della destra cristiana e il riferimento continuo a una sgualcita costituzione che tiene in tasca da vent'anni, aveva sempre vinto. In un partito improvvisamente indebolito, dilaniato, senza anima né comprensibili ideali, DeLay prese la guida. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Ma quando si fa sporco, ci vogliono i pesticidi. Nel giorno del raccolto DeLay li ha sparsi ovunque. La mossa più decisa e letale è quella che ha falciato Livingston. Costretto a confessare un passato di adultero, Livingston era diventato uno speaker imbarazzante. Per arrivare allo scacco al re, DeLay non ha esitato a sacrificare l'alfiere. Ha convocato Livingston e gli ha detto: «Devi andartene. Tu ti dimetti e lanci la sfida a Clinton: se è uomo, ti segua». Nessun problema se il presidente è mcriminato per spergiuro e Livingston ha solo tradito la moglie. Nessun riguardo se il futuro speaker non voleva saperne di dimettersi. Una martellata e Livingston era schiacciato e mandato in aula a pronunciare nervosamente e rabbiosamente il discorso d'addio. Verrà un giorno, il 21 gennaio 1999, allo scadere dell'anno primo dell'era Lewinsky, in cui conteremo quante teste saranno cadute da quando Monica abbassò la propria e ci stupiremo del risultato. Nessuno stupore, invece, nel vedere DeLay parlare poco dopo Livingston, con una recitazione da Oscar: voce rotta, lacrime agli occhi, manifestando cordoglio e contenendo ferocia. Due ore più tardi, la congiura raggiungeva infatti lo scopo. Quando gli domandano se il futuro lo preoccupa, DeLay risponde: «No, perché ogni giorno potrebbe essere quello del giudizio». La sua congiura l'ha avvicinato di molto, almeno per re Clinton sotto scacco. Ma nel campo repubblicano c'è stata una strage dì alfieri e torri, mentre i democratici hanno ancora tutti i pedoni e la regina, oltretutto compattati e decisi a reagire. La vittoria di Martello DeLay potrebbe essere di Pirro. Nella lunga battaglia al Senato il re potrebbe ritrovare forze e salvarsi. La stanchezza popolare, se non si rivolterà contro Clinton in pochi giorni, potrebbe farlo contro i repubblicani più tardi. Quattro mesi di processo teletrasmesso, con deposizioni accurate sulle attività fisiche nello studio ovale, potrebbero generare quattro anni di nausea e regalare due mandati a Al Gore. Ma questo è imponderabile futuro. Lo vedremo scorrere alla velocità della luce. Livingston ha attraversato il cielo in un alito: il nulla-una stella-una stella cadente-il nulla nuovamente. Oggi, mentre re Clinton, atterrato, guarda il firmamento e lo interroga, brilla e sogghigna l'astro di Tom DeLay. Gabriele Romagnoli Aveva una fabbrica di pesticidi prima di darsi alla politica appoggiato dalla destra cristiana Dopo le elezioni tutto era perduto ma lui disse «Andiamo avanti» Tom DeLay (a sinistra), texano è il regista di queste ultime settimane di Sexgate. Sotto, Al Gore il vice presidente di Clinton Newt Gingrich, repubblicano l'ex speaker della Camera

Luoghi citati: Iraq, Louisiana, Martello, New York, Texas, Venezuela