Nel Macbeth di Bova brilla Chiara Muti di Masolino D'amico

Nel Macbeth di Bova brilla Chiara Muti A Milano, Longoni rivisita Shakespeare Nel Macbeth di Bova brilla Chiara Muti MMILANO ACBETH clan», scritto e diretto da Angelo Longoni, è uno spettacolo movimentato e di buon intrattenimento il cui unico difetto è nella trama, che si ostina a seguire la traccia della tragedia di Shakespeare anche dopo avere eliminato un paio di premesse indispensabili. Nella rielaborazione i contendenti sono mafiosi in una metropoli non meglio specificata, con Duncan come padrino e Maebeth come suo braccio destro. Dopo un'azione vittoriosa Macbeth viene beneficato da Duncan, ma delle streghe - ossia, delle cubiste mignotte che se lo portano a letto gli profetizzano che è destinato ad essere lui il capo; Macbeth lo rivela alla moglie, e costei lo convince ad assassinare Duncan, che donne in casa loro dopo un'orgia per festeggiare la vittoria sulla gang rivale. Ambientazione a parte, rispetto a Shakespeare ci sono due differenze fondamentali. Una è che la moglie di Macbeth è stata l'amante di Duncan, il quale benché semiimpotente si prende dei passaggi ancora adesso. La seconda è che Duncan non e un sovrano unto dal signore, bensì un capo di gentaglia che malgrado sproloqui di onore non fa che tradirsi a vicenda. Di conseguenza, primo, la Lady, o meglio, Lady, non è spinta solo da libidine di potere, ma anche da meschine e femminili intenzioni di rivalsa. Secondo, il rimorso che compiuto l'atto schiaccia i due risulta poco credibile. Anche altrove Longoni si complica la vita per il puntiglio di una malintesa fedeltà. Per esempio, si sforza di mantenere il cavillo su Macbeth che non può essere ucciso da nato di donna, possibile in inglese ma insensato in italiano, costringendo Macduff a pronunciarne una lunga giustificazione prima di sparare il colpo decisivo all'assassino del capo dei capi. Là dove Longoni inventa liberamente, le cose, invece, filano nel magico spazio del Teatro Studio, grazie anche alle brillanti soluzioni scenografiche e ai vivaci costumi di Maria Carla Ricotti, e alle musiche in parte acide in parte sussurrate di Paolo Vivaldi. Si comincia con due motociclette e uno schieramento di picciotti che cercano fra il pubblico due infami, uno dei quali giustiziano li per lì; e si conti- nua col giubilo di Duncan fra nuvole di coca quando gli viene recata la notizia della prodezza di Macheti;. Nel prosieguo c'è un frequente e financo eccessivo uso di fumoni, come non bastasse la nebbia milanese fuori del teatro, nonché della botola, dalla quale sorgono prima un altare con croce e candele, poi talami, sempre per le contorsioni delle tre strege con chiome punk; c'è la festa di cui sopra, con Lady che canta «Amado mio» alla maniera di Rita Hayworth; ci sono sparatorie molto sonore; c'e persino un'impiccagione, con corda che piove da quaranta metri di altezza. Buon lavoro di équipe dei molti e dinamici interpreti, belle ragazze e credibili malavitosi in cuoio nero, fra cui spiccano Paolo Maria Scalondro, veramente in bianco, che è Duncan, e Giovanni Visentin che è Banquo. L'attesissimo Raoul Bova, alto, prestante e di lunga chioma, sfodera, solo lui, un ottimo accento siciliano, e per il resto si muove senza goffaggini. Sua è la dignità di un Amedeo Nazzari fine secolo, ma in scena gli manca ancora qualcosa, chiamatelo presenza o carisma, quel nonsoché che calamita gli sguardi: misteriosa dote che certo acquisirà. Certo, c'è chi la possiede dalla nascita, come sospetto sia il caso di Chiara Muti, giovane Lady dalla voce intensa e dal viso interessante. La Muti è acerba, ma non sbaglia mai un gesto, e per quanto non possa rendere del tutto credibile la crisi imposta al suo personaggio, ci lascia curiosi di cosa potrebbe spremere da quello originale, se il futuro glielo facesse incontrare. Masolino d'Amico Raoul Bova era atteso: alto, prestante e con i capelli lunghi ha sfoderato un ottimo accento siciliano e si è mosso senza goffaggini

Luoghi citati: Bova, Milano