«Mi sento ancora sotta il cemento» di Maria Corbi

«Mi sento ancora sotta il cemento» «Mi sento ancora sotta il cemento» «Ma dove andrò quando uscirò dall'ospedale?» IL RACCONTO DEL SUPERSTITE OROMA UANDO chiudo gli occhi mi sento ancora sotto le macerie. Un senso di oppressione che non mi abbandona mai». Alberto Viola, sopravvissuto al crollo insieme alla moglie Luciana, ripete queste parole a chi gli chiede come si sente. «Non mi sono accorto del crollo, ma dopo sono stato sempre cosciente. Non so quanto tempo sia passato, poi all'improvviso ho sentito che qualcosa sopra di me si muoveva. Erano i soccorritori e finalmente ero fuori». I bollettini dei medici parlano di miglioramenti, ma l'espressione perduta dell'uomo fa capire tutta la sua angoscia. Giace in un letto con le gambe spezzate e l'animo in pezzi. L'euforia di due giorni fa ha fatto gridare al miracolo ed è stata scambiata per gioia. Ma adesso tutto riacquista contorni reali. E l'esperienza di Alberto e Luciana si rivela per quello che è: un'enorme disgrazia. «Ho perso tutto, tutta una vita di lavoro. Non mi è rimasto nemmeno un fazzoletto. Adesso a 60 anni che prospettive posso avere?». Alberto Viola parla con i parenti attraverso il vetro della sua camera nel reparto di terapia intensiva al San Camillo. A pochi metri da lui, in un altra camera, c'è la moglie, Luciana Pompei. E' lei che sta peggio. E' ancora intubata e le sue condizioni rimangono critiche. Mercoledì sera tre ore di intervento per ricucirle la vescica ed evitare lesioni al fegato. Viene definita «paziente politraumatizzata in gravi condizioni generali con trauma cranico, stato di coscienza confuso, trauma costale con insufficienza respiratoria, trauma addomino-pelvico con frattura di bacino e lesioni viscerali, trauma degli arti inferiori con fratture ad entrambi gli arti». E' come se il suo corpo fosse stato schiacciato senza pietà. La prognosi rimane riservata anche per Alberto Viola. Il professor Massi, primario del reparto di chirurgia d'urgenza, spiega che «sarebbe incauto scioglierla, visto che gli effetti di un trauma come quello che hanno subito questi due signori, seppelliti sotto le macerie per 15 ore, possono manifestarsi anche a distanza di giorni». Ma le ferite più grandi sono quelle scolpite nell'anima e nella memoria dei due sopravvissuti al crollo di via di Vigna Jacobini. Per loro è stata chiesta un'assistenza psicologica che li aiuti a uscire dall'incubo. Quelle interminabili ore con la terra addosso, nella bocca, nel naso e la paura di non farcela. «Non riuscirò mai a dimenticare», dice Alberto, che adesso è preoccupato per la moglie. «E' lei che sta veramente male». Il nemico adesso si chiama «depressione». Bisogna che Alberto e Luciana trovino la forza di ricominciare. «E' una cosa fondamentale per il loro completo recupero fisico», insisto¬ no i medici. Gli amici che vengono a trovarli parlano di loro come una coppia unitissima, ancora innamorata dopo 30 anni. Da ieri sono di nuovo vicini, nel reparto di terapia intensiva, anche se non possono darsi la mano come hanno fatto per tutto il tempo che sono rimasti sepolti. Per loro, ieri, c'è stato un via vai di amici e parenti. La prima ad arrivare è Marisa De Sanctis, ex compagna di lavoro di Alberto. Insieme hanno fatto la tournée di Raffaella Carrà in Argentina. Lei come costumista, lui come tecnico delle luci. «Ho saputo dalla televisione del crollo. E istintivamente - racconta la donna - ho fatto il numero di telefono di Alberto e Luciana. Mi ha risposto la segreteria telefonica, diceva che non accettava altri messaggi perché era piena. Allora ho sperato che ci l'osse uno sbaglio». La segretria telefonica che continua a rispondere nonostante tutto il palazzo sia ridotto in briciole. Sembra uno scherzo, un errore. E invece è quello che racconta anche lo zio di Luciana, Noris Pompei. Ha 75 anni e tanti anni fa abitava insieme con sua nipote. «Quando ho sentito la segreteria telefonica, ho tirato un sospiro di sollievo. Allora non è lei, mi sono detto». Noris Pompei, ieri, è entrato nel reparto di terapia intensiva. «Alberto l'ho trovato bene fisicamente, anche se ha avuto solo la forza di sorridermi e di dirmi "tua nipote sta peggio di me". Luciana invece non poteva parlare, ha solo avuto la forza di farmi un cen¬ no». In serata da Londra ò arrivato anche il figlio Marco, che lavora come steward in una compagnia aerea. Insieme con il fratello Andrea sono entrati nella camera dei genitori. Un lungo abbraccio e le lacrime hanno solo attenuato l'angoscia di quelle interminabili ore che lasciavano poco spazio alla speranza. La faccia di Andrea è una maschera di tensione. «E' ancora presto per parlare», ripete. Anche lui pensa al domani. A quando, spenti i riflettori su questa storia, i genitori usciranno dall'ospedale e dovranno ricominciare tutto da capo. Andrea non sa che rispondere al padre che gli chiede: «Quando esco da qui dove vado?». Maria Corbi Il sindaco di Roma Francesco Rutelli

Luoghi citati: Argentina, Londra, Pompei, Roma