Non torna il tempo di Cocciolone di Pierluigi Battista

Non torna il tempo di Cocciolone Non torna il tempo di Cocciolone Otto anni fa c'erano più rabbia e furori PUE GUERRE E jr tutto diverso da otto * anni fa. Emilio Fede ci prova a ricreare il clima di otto anni fa ma nell'immaginazione e nelle passioni degli italiani che fanno «opinione» è difficile che Desert Fox possa dar vita al grande circo del Desert Storm. Dov'è Gocciolone? E i post-comunisti che, appena liquidato il pei, vanno con le loro figlie in spalla a onorare il Papa pacifista? E l'interminabile chiacchiericcio che ha diviso guerrafondai e pacifisti, e le «donne in nero» che luttuosamente si muovevano per Roma, e la commozione collettiva per la soldatessa Melissa in mano a Saddam? No, tutto appare più gelido, stancamente ripetitivo. Privo di nerbo, al confronto dei furori e degli ardori di quel gennaio 1991. Dietro a Giovanni Paolo II che definiva la guerra del Golfo «l'avventura senza ritorno» si poteva sostenere, come Giampaolo Pansa, che quella combattuta a Baghdad sarebbe stata senza ombra di dubbio «la Terza guerra mondiale». E si poteva scrivere con i toni concitati dell'allora corrispondente di «Telekabul» negli Stati Uniti, Lucio Manisco, che su Avvenimenti proclamava: «al- la mezzanotte di martedì 15 gennaio si è levato il sipario su quella che tra poche ore potrebbe diventare una carneficina ai limiti del genocidio». Massimo Cacciari era sicuro che in Iraq stava scatenandosi nientemeno che la «guerra totale», Umberto Eco avvertiva i guerrafondai che spesso le conseguenze delle azioni sono più gravi di ciò che sembra, come gli effetti di una «catastrofe gravitazionale». Del resto Giovanni Raboni non lesinava le tinte forti nel suo scenario apocalittico: «distrutto l'Iraq, gli occidentali si troveranno di fronte a uno spirito di rivalsa e di rivolta così unanimi che saranno costretti a instaurare in tutto il Medio Oriente una pace armata di tipo neocoloniale». Previsione problematica, ma sempre meno di quella offerta senza esitazione dal leader di Legambiente Ermete Realacci: «Le centinaia di pozzi petroliferi continueranno a bruciare per anni nel Kuwait». Passioni sanguigne che si sono raffreddate. Ma non è che tra i «guerrafondai» si andasse molto per il sottile. Giovanni Sartori si rallegrava perché finalmente ci si trovava innanzi «a una guerra atta a risolvere i problemi», l'allora ministro degli Esteri Gianni De Michelis baldanzoso pronosticava che «l'annichilimento di Saddam sarà l'annientamento del Pcipds», Luigi Calligaris sentenziava che se «la vendetta è un piatto che si mangia freddo, la rappresaglia va consumata al più presto». Anche Indro Montanneli, allora saldamente sulla sella del suo Giornale, non badava a sfumature: «Bush non raggiungerà Saddam sulla piazza del villaggio spazzata dal vento. Ma gli ha chiuso ogni via di scampo mettendolo alla scelta tra l'umiliazione e la morte. Come avrebbe fatto John Wayne». E tra i pacifisti molti non apprezzarono la cinica constatazione di Bruno Vespa: «La guerra l'ha fatta la comunità internazionale. Se vogliamo essere iscritti al club dobbiamo pagare le quote». 0 il tono barricadiero di Federico Orlando, non ancora deputato dipietrista dell'Ulivo, che sbeffeggiava così i pacifisti: «bianchi, rossi e verdi, si ritrovano nella Guardia Repubblicana di Saddam». Durante la guerra del Golfo tutti credevano di sapere tutto ma in realtà, come si è constatao dopo, sapevano pochissimo. In compenso si conosceva benissimo il codice delle polemiche dal tono vagamente minaccioso. Come Franco Fortini, che scriveva: «Dovremo ricordarci i nomi di chi ha aiutato o tollerato la menzogna. Essi, i nostri nomi, non li dimenticano. Siamo da sempre nei loro schedari. Prepariamo i nostri». Oppure si leggeva sul Sabato, l'organo dei papisti pacifisti vicini al Comunione e Liberazione, l'attacco furibondo all'«interventista» Nicola Matteucci, definito brutalmente «un maggiordomo in tuta mimetica, uno delia schiera dei bonzi da intervento in guerra». Decisamente meglio il lirismo di Dacia Marami che descriveva così i laceri irakeni sul punto di consegnarsi alle troupes televisive: «Quelle bandiere bianche allegramente sollevate dobbiamo leggerle per quello che dicono di più nel linguaggio dei gesti: non viltà, né ossequio ma slancio verso la pace». Intanto il Manifesto incitava alla «diserzione di massa» e, come controcanto, il bellicista Giorgio Bocca liquidava così i pacifisti: «A sentirli parlare sembrano fossili del pliocene cubano e vietnamita». Giulio Carlo Argan, amaramente sarcastico, chiosava: «C'è una speranza di evitare il disastro se il capitalismo trionfante ha già trovato il modo di dilapidare i patrimoni culturali anche senza spargimento di sangue?». Nicola Tranfaglia tentava la profezia: «Sarà più difficile convincere Israele ad accettare una discussione sui territori occupati». Sbagliava. Ma almeno, nel grande circo di Desert Storm, c'era la passione. E ora, con Desert Fox? Pierluigi Battista «Guerrafondai» e «pacifisti» si battevano senza esclusione di colpi Il capitano Cocciolone (a sinistra) e Lucio Manisco

Luoghi citati: Baghdad, Iraq, Israele, Kuwait, Medio Oriente, Roma, Stati Uniti