Quarant'anni fa a Suez il ribaltone degli imperi di Domenico Quirico
Quarant'anni fa a Suez il ribaltone degli imperi IL PATTO DB FERRO Quarant'anni fa a Suez il ribaltone degli imperi E j successo solo una volta: Suez, 1956. Il leone britannico ruggisce per l'ultima volta, difende un po' pateticamente un pezzo della sua storia, quel Canale che è la vena dell'Impero, la strada dritta verso le sue asiatiche immensità. L'Impero non c'è più: ma i soldati di Sua Maestà sono ancora li, per domare quegli egiziani arroganti, che fino a poco prima bastava un frustmo per mettere in riga. Al loro fianco ci sono le divise scolorite di un altro impero al tramonto, i francesi. L'America no: anzi, sta dall'altra parte, critica e rancorosa, e strepita e minaccia conseguenze pesanti se non finirà subito quella senescente manifestazione del colonialismo europeo. Non c'entrano i buoni sentimenti: è il linguaggio concreto, sonante del petrobo che muove le fila del Grande Gioco di Washington, ci sono nuove influenze da sostituire a quelle troppo antiche e slabbrate. Il mondo è cambiato a Suez, nel '56, quando Eden si giocò una carriera per aver dimenticato che contro gli Stati Uniti non si può alzare la voce, anche se si è alleati e si è combattuto, fianco a fianco, un paio di guerre mondiali. E' una lezione che nessun governo inglese, conservatore e laburista, di destra e di sinistra, ha mai più dimenticato. Un dittatore decide di sfidare l'Occidente impugnando il petrolio o il fanatismo? Accanto all'armata americana, gigantesca, ridondante, fastosa, c'è, piccola, spesso quasi simbolica, abituata all'efficienza che impone sempre la politica della lesina, la pattuglia dei Tommy inglesi. Alì'Onu si scatena la battaglia e I l'Occidente è, matematicamenI te, obbligato alla minoranza? Washington non ha bisogno di consultazioni: i voti (e i veti) sicuri sono due. Qualche volta addirittura è Londra che precede il potente alleato, che detta la marcia sistematica, perseverante, rigorosa, prima ancora che gli americani si pronuncino e riordinino le idee. E tra i leader l'intesa diventa spesso amicizia, solido rapporto umano: il ringhioso Reagan e la scorbutica Thatcher, Bush e Major, eredi grigi di una pesante eredità, il sorridente Clinton e il sorridente Blair. Attorno all'alleanza di ferro tra Washington e Londra scorre il fiume della diplomazia; è un monolito, quasi un pregiudizio, talmente solido che non lo si discute più: esiste e basta. E' ammantato di un velario retorico ispessito dal tempo: essere entrambi l'incarnazione, per clù lo rispetta e per chi lo odia, del modello politico occidentale; antico come la Magna Charta e giovane come la Frontiera. E poi pesano i ricordi, impastati del fango delle trincee delle Fiandre e della sabbia di Normandia. Ma, perché no?, anche l'astuto machiavellismo dei governi inglesi: solo restando a fianco dell'ex colonia si respira ancora un certo alito di grandezza, si può usare senza essere irrisi la vecchia aurea parola «prestigio»; e ci si sente un po' diversi da quell'Europa che continua ad attirare e respingere. Noi siamo fedeli: loro, i francesi gli italiani, i tedeschi no. E l'America? Forse risana la ferita dello strappo dell'indipendenza, vede quello che era un tempo il maestro diventato l'allievo obbediente. Anche se si è Grandi, non si può vivere da soli. Domenico Quirico ico
Persone citate: Bush, Clinton, Reagan, Thatcher
Luoghi citati: America, Europa, Londra, Normandia, Stati Uniti, Washington
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