Una guerra lunga otto anni

Una guerra lunga otto anni La vittoria nel '91 è stata solo un episodio in una infinita serie di provocazioni e raid Una guerra lunga otto anni Per Washington un irriducibile nemico La crisi Usa-Iraq, una storia infinita. Diciamo Usa e Iraq, formalmente dovremmo dire Onu e Iraq, perché il dittatore iracheno è da otto anni che elude, aggira, viola risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Ma in realtà il confronto, il braccio di ferro, è tra Baghdad e Washington, tra Saddam e i due presidenti americani che si sono susseguiti dal 1989, cioè George Bush e Bill Clinton-.- Due presidenti di opposto segno politico, e tuttavia concordi nel considerare il regime iracheno una sfida intollerabile al ruolo della superpotenza in Medio Oriente (che è anche la massima area petrolifera mondiale), e più in generale agli interessi dell'Occidente, di cui Washington si sente, ed è, la vera capitale. Intollerabile Saddam si rivelò, per sua colpa esclusiva, la notte del 2 agosto 1990, quando diede l'ordine alle sue truppe d'invadere il Kuwait. Certo, c'entrava il petrolio (con quello kuwaitiano egli arrivava a controllare un quinto della produzione mondiale), ma non fu solo per quello che gli Stati Uniti non esitarono un istante a prospettare e a preparare un'adeguata risposta militare. L'invasione di uno Stato indipendente, senza alcun motivo credibile (ammesso che possano esisterne), era qualcosa che non si vedeva dagli Anni Trenta, dai tempi di Hitler. C'erano state, è ovvio, le invasioni sovietiche nell'Europa dell'Est negli Anni Cinquanta e Sessanta, e poi ancora l'invasione dell'Afghanistan, ma erano state pur sempre mascherate da «aiuto fraterno» a regimi comunisti in crisi, appartenevano alla storia perversa di una rivoluzione, quella appunto comunista. Invece Saddam, semplicemente, pensò di annettersi un Paese sovrano, sulla base di una visione brutale e primitiva degli interessi nazionali dell'Iraq. Se vogliamo, un precedente prossimo c'era, ed era proprio l'Iraq, che, dieci anni prima, nel 1980, aveva invaso l'Iran, pensando di approfittare delle convulsioni del khomeinismo per smembrare il potente e ingombrante vicino. Ne era seguita una guerra devastante, lunga otto anni, che gli americani, in verità, avevano osservato con un certo cinismo, sperando che «le due tigri», come disse Kissinger, si dissanguassero a vicenda, ma non senza aver visto, in una qualche misura, in Saddam una forza di contenimento dell'estremismo sciita iraniano (che sembrava allora il pericolo maggiore). Fu forse per questo che il dittatore di Baghdad pensò, in quell'agosto del 1990, di poter ripetere l'impresa, con ben altra facilità militare. La storia, o la leggenda, dice che si sentì «non scoraggiato» da un inesperto ambasciatore americano, la signora Aprii Glaspie. In realtà, sbagliò completamente i suoi calcoli. E, dopo averli sbagliati, si ostinò a perseguirli. Il 9 settembre, Bush e Gorbaciov s'incontrarono a Helsinki e, nel nuovo clima russo-americano, di¬ chiararono che sarebbero stati «uniti contro l'aggressione». In realtà, Mosca tentò poi alcuni giochi di destrezza, affidati all'attuale premier Primakov, ma non fece mancare all'Onu il suo voto contro Baghdad. Ciononostante, Saddam continuò per la sua strada, ignorando l'ultimatum del Consiglio di sicurezza per un ritiro completo e incondizionato dal Kuwait entro il 15 gennaio 1991. E alle 2,35, ora di Baghdad (le 0,35 ora italiana) del 17 gennaio scattò l'attacco aereo. Che durò oltre un mese, finché, alle 4,30 irachene del 24 febbraio, non partì l'offensiva terrestre, la «Tempesta nel deserto» («Desert Storm»). In tutto questo tempo, Saddam rifiutò di tornare sui suoi passi, anzi cercò con i missili di provocare anche Israele, benché, sotto la guida americana, si fosse apprestata contro di lui una coalizione senza precedenti, che andava dagli Stati Uniti e dai principali alleati europei a Paesi arabi determinanti come l'Egitto, l'Arabia Saudita e la Siria. La guerra finì con la disfatta irachena il 3 marzo. E tuttavia non era la fine della storia, anzi la storia, la storia della crisi, doveva ripartire proprio da quel punto. Costretto a ritirarsi dal Kuwait, e a riconoscerne la sovranità, costretto ad accettare pesanti risoluzioni del Consiglio di sicurezza, che imponevano la rinuncia e la distruzione di ogni progetto di armi nucleari, batteriologiche e chimiche, Saddam continuò a sfidare l'America e l'Onu. E a ogni sfida una risposta, e a ogni risposta un'altra sfida. Egli continuava a perseguire un suo folle disegno, quello di fare dell'Iraq una potenza regionale, decisiva nella lotta all'Occidente e a Israele, grazie all'acquisizione di armi di distruzione di massa. Di contro, gli Stati Uniti, oltretutto non potendo più contare su un Consiglio di sicurezza completamente solidale, si trovavano sempre più in un dilemma: dare il colpo di grazia, dalle pesanti implicazioni politiche, o continuare a tentare le via delle sanzioni e delle ispezioni internazionali? Il calendario di questi anni è fitto di crisi acute e temporanee. Nel giugno del 1993, 32 missili Cruise si abbatterono sul quartier generale dei servizi segreti iracheni, come reazione a un complotto per assassinare l'ex presidente Bush. Nel settembre di tre anni dopo, altra pioggia di missili sull'Iraq meridionale per l'ingresso di truppe di Baghdad nella zona «protetta» dei curdi. E poi la prova di forza diplomatica dell'ottobre-novembre 1997 per l'espulsione, poi rientrata, degli ispettori dell'Orni. E il caso di ripete nel febbraio di quest'anno, quando un'imponente macchina bellica americana è pronta colpire, ma il segretario dell'Orni, Kofi Annan, fa il «miracolo» di far «rinsavire» Saddam. Ancora otto mesi e ci risiamo. Quando ormai tutto è pronto per l'attacco, siamo davvero all'ultimo minuto, il dittatore fa marcia indietro. Per riprendere la strada delle provocazioni poche settimane dopo, in queste ore. Aspettando gli eventi, si possono fare due considerazioni. La prima è: Bush sbagliò, il 3 marzo del 1991, a non permettere al generale Schwarzkopf di proseguire la sua marcia fino a Baghdad? Probabilmente sì, ma i suoi motivi avevano un fondamento, non voleva andare oltre il mandato dell'Onu e temeva le conseguenze nell'area di uno smembramento dell'Iraq tra sunniti, sciiti e curdi. La seconda considerazione riguarda il contesto internazionale. Nel 1990-'91, la risposta internazionale all'invasione del Kuwait sembrò prefigurare un «nuovo ordine mondiale», come Bush amava chiamarlo. Oggi è tutto più complicato, e non solo per le traversie della presidenza Clinton. Il mondo appare realmente più disgregato, e quindi con maggiori possibilità di manovra per il dittatore iracheno. Ciò non toghe che la determinazione americana resti grande, almeno quanto la tenacia (alla fine suicida?) di Saddam. Tutto fa credere comunque che siamo all'«ora della verità», quella in cui i nemici si guardano negli occhi. Aldo Rizzo Il dittatore iracheno non ha mai rinunciato al progetto di sfidare l'Occidente A febbraio tutto sembrava già pronto: Annan fece il miracolo e fermò l'ennesima punizione Una delle immagini simbolo della conclusione della «Tempesta del deserto»: un gruppo di militari iracheni si arrendono ai soldati del contingente internazionale ÀI