«Bombardamenti legittimi ma inutili»

«Bombardamenti legittimi ma inutili» Il premier parla per la prima volta a un giornale italiano di Usa-Iraq e di Europa «Bombardamenti legittimi ma inutili» D'Alema è contrario all etica Usa della punizione IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Lm ROMA m IDEA degli Stati Uniti di bombardare l'Iraq è inutile anche se sicuramente ha una base legale». Massimo D'Alema non sembra aver dubbi in proposito, e osserva con molto scetticismo il rinnovato attivismo bellico degli Stati Uniti nel Golfo. Non condivide «l'etica americana della punizione dei cattivi», non crede che l'uso della forza sia «veramente legittimo se viene applicato in maniera selettiva». E' quello che il Presidente del Consiglio mi ha detto ieri pomeriggio in una lunga conversazione a Palazzo Chigi, e ascoltandolo è stato difficile non pensare allo stato d'animo della nuova Europa socialista, in questo fine secolo. E' uno stato d'animo distaccato, per l'appunto scettico. Non le si addicono le subitanee agitazioni interventiste dell'America. Non le si addice soprattutto l'etica della punizione: «Così fondamentale per la cultura americana», così estranea all'Europa. U'Aiema non è contrario per principio alle azioni contro gli Stati che ignorano le risoluzioni dell'Orni, o che violano il diritto intemazionale. Non contesta neppure la legalità dell'intervento statunitense nel Golfo, contemplato come possibilità da precedenti decisioni del Consiglio di Sicurezza. Ma quest'«etica della punizione» gli appare troppo imperfetta per essere legittima, troppo precipitosa oltreché selettiva per esser moralmente accettabile. «Se si vuole applicare una giustizia internazionale, allora bisogna possedere una fermezza adamantina e colpire tutti i colpevoli di trasgressione, di violazione dei diritti umani». D'Alema sorride, dice che potrebbe fare una lista dei GafóvTnèT'mdndo e là'lista sarebbe inesauribile. * Anche questo sorridere ci è app|rso--'-assai--europeo: ■ ■qgasi dieci anni sori passati dalla caduta del Muro di Berlino, e i governi dell'Unione ancora faticano a pensare il mondo disordinato, violento, imprevedibile, che è seguito alla fine della guerra fredda. Faticano a stabilire liste ±' priorità provvisorie ma almeno concrete, nel combattimento contro i flagelli che minacciano l'Occidente. Gli europei pretendono di vedere più lontano degli americani, e per questo sorridono: sanno che non esiste giustizia in questo mondo, sanno che i colpevoli sono infinitamente più numerosi di quelli indicati da Washington. Sono a tal punto innumerevoli che colpirne qualcuno è impresa inane oltreché moralmente indifendibile. L'Europa dei nuovi governanti socialisti e socialdemocratici esita a pensare le guerre presenti e future, in assenza di un «ordine internazionale fondato su una legalità» finalmente neutrale, non più contaminata da calcoli di politica interna. Se la passione scettica non fosse così intensa, quasi si direbbe che D'Alema condivida il sogno illusorio coltivato da Bush, dopo l'89: il sogno di un nuovo ordine internazionale definitivo, di una governabilità dei mali che affliggono il globo. In attesa di quell'improbabile ordine, il presidente postcomunista è convinto che non esista una legittimità, per le guerre presenti o future condotte dalla Nato contro i propri nemici. Non è il solo d'altronde ad avere questa opinione, e a coltivare questi sogni di serenità post-storica. Se si esclude l'Inghilterra, quasi tutti i governanti europei di sinistra sono ostili di questi tempi allo spazio centrale che Clinton vuol attribuire alla Nato nella gestione dei conflitti. «Esiste un problema di legittimità dell'uso della forza spiega D'Alema - sul quale americani ed europei hanno pareri profondamente divergenti. Per gli americani l'uso della forza Nato deve limitarsi ad essere coerente con la Carta delle Nazioni Unite. Per buona parte degli europei l'uso deve essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza: la Nato non può pensare di esercitare un monopolio mondializzato della Forza senza vincolarlo a precise, condivise regole capaci di legittimarne l'uso». Ma se così stanno le cose non ci si condanna all'impotenza, dunque a una politica estera dimissionaria? Non è stato questo il vizio delle classi dirigenti europee nella guerra di genocidio nei Balcani? Se gli americani non avessero bombardato le postazioni serbe, noi del Vecchio Continente staremmo ancora ad aspettare la fine del lungo sonno Onu, l'avvento di una legalità mondiale, e i bosniaci avrebbero pagato queste nostre smagate attese con centinaia di migliaia di morti in più. D'Alema su questo è d'accordo: l'Europa ha mancato all'appuntamento con le guerre di sterminio in ex Jugoslavia. Ma questa consapevolezza non incrina i suoi scetticismi, e la preferenza data in genere al negoziato politico sui regolamenti dei conti militari. «Prenda l'esempio del Kosovo - dice - è chiaro che bisogna far di tutto perché cominci un negoziato fra serbi e indipendentisti albanesi. E' chiaro che non serve a nulla demonizzare Milosevic, anche qui è la selettività delle punizioni che mi fa specie. Non vedo come mai Milosevic sia condannabile mentre i governanti turchi no, vista la maniera analoga in cui avviene la repressione delle minoranze etniche. Non vedo perché mostrarsi indulgenti verso i guerriglieri indipendentisti del Kosovo e massimamente intransigenti con il terrorismo del Pkk, il partito indipendentista curdo». Ci si può domandare a questo punto da dove nasca questa vocazione europea all'impotenza disillusa, questo metter sullo stesso piano la resistenza armata dei curdi e il massacro di po- polazioni civili inermi in Bosnia, questa sua atarassia che perpetua - nei fatti - la nostra ormai secolare dipendenza dagli interventi americani nel Vecchio Continente. Anche su questo è interessante ascoltare D'Alema, soprattutto quando parla del vertice europeo di Vienna. Eccoli dunque tutti riuniti, i nuovi dirigenti delle sinistre. Hanno ricevuto in eredità un'Unione incompiuta, che ha fortunatamente realizzato la Moneta Unica e ha creato un organo sovrannazionale - la Banca Centrale Europea a Francoforte - ma che non riesce a immaginare nulla di nuovo, per fare qualcosa di significativo e importante, grazie al potente strumento finanziario appena messo a punto. Sono dirigenti che hanno un'ossessione, dominante: inventare qualcosa di analogo all'euro, sul piano sociale e della lotta alla disoccupazione, che non faccia sfigurare la sinistra rispetto all'operazione monetaria facilitata dal democristiano Kohl in collaborazione prima con Mitterrand, poi con Chirac. Ma le invenzioni sono deboli, e D'Alema stesso è costretto a riconoscere la «natura ottativa dei comuni impegni sociali», e i passi indietro che si registrano con l'avvento dei socialismi nell'Unione. Il suo giudizio è severo su Blair, «che dipende in maniera abnorme dai sondaggi». E' ancor più severo su Schroeder, e sul «nuovo egoismo economico di una Germania senza più complessi storici, dove non son più visibili le grandi visioni di Kohl». Ha dubbi sulla modernità di un socialismo francese im¬ paurito dal liberalismo economico, ben più statalista e allergico alla flessibilità del lavoro di quanto lo siano le sinistre italiane. E' colpito negativamente dal tempo abnorme, grottesco, che i leader europei dedicano a questioni ben poco fondamentali: «Pensi che buona parte del vertice l'abbiamo passato in feroci discussioni attorno all'abolizione dei negozi duty free, alle frontiere tra Stati dell'Unione!». Ciononostante D'Alema vuole a tutti i costi essere ottimista. E anche per questo è così irritato, ipercritico, quando parla dei giornali «che disinformano, che fanno vani chiacchiericci, che non raccontano mai i fatti, che si appassionano di polemiche secondarie e non hanno sensibilità per le questioni di fondo». Gli chiediamo se non siano i profeti di sciagure, che lo indispongono tanto nei giornali. Se la sua aspirazione sia di avere attorno a sé una stampa edificante, o come usa dire oggi: una stampa che pensa in positivo. Gli chiediamo anche il perché di tanto ottimismo, quando si vede quest'Unione così inesistente in politica estera, e parolaia sulla disoccupazione, e ancora incapace a nove anni dalla caduta del Muro di integrare l'Europa liberatasi dal comunismo, di adottare una strategia ardita verso il Sud minacciato dall'integralismo islamico in Algeria o in Iran. Le risposte di D'Alema sono solo in parte confortanti, e convincenti. «L'allargamento dell'Europa è ostacolato dalle introversioni egoiste e dalla avarizia degli Stati ricchi, ma è anche obiettivamente difficile con le istituzioni intergovernative che abbiamo: senza organismi esplicitamente federali, aprire a nuovi Stati porterebbe a una paralisi grave dell'Unione, che non ci possiamo permettere». In cambio però i governi europei «hanno deciso di tentare per la prima volta una politica estera autenticamente comune: l'esperimento avverrà nei rapporti con la Russia, nel '99. Si tratterà di varare un grande piano di assistenza alimentare, di aggirare le mafie nella politica degli aiuti, e di aiutare il Paese a formare i quadri - funzionari pubblici, poliziotti, doganieri - di uno Stato infine funzionante. Si tratterà di moltiplicare ed estendere i contatti con le élites russe, e di non concentrarsi solo sul suo capo supremo ma di avvicinare i suoi parlamentari, i suoi governatori locali, i sindaci, i ministri del governo». Secondo il presidente del Consiglio, fin dalla metà del¬ l'anno prossimo ci saranno novità non irrilevanti in questo campo: per la prima volta avremo un ministro degli Esteri dell'Europa, con rango sovrannazionale analogo a quello del presidente della Commissione di l_Bruxelles: «Il .ministro dell'Unione'potrebbe essere inglese, per la speciale importanza che Blair attribuisce ultimamente a una comune difesa, e a una comune diplomazia». Decisamente deludente ci è apparso il Presidente del Consiglio sui crimini dell'integralismo islamico in Algeria: qui è ancora potente il fascino esercitato dalla Comunità di Sant'Egidio e dai suoi appelli al dialogo con l'islamismo radicale. Qui non è stata ancora fatta da tutta la sinistra europea - la scelta in favore delle forze democratiche e soprattutto laiche di questo Paese dove la barbarie integralista non può esser messa sullo stesso piano con la durezza della repressione militare. Ma l'insofferenza di D'Alema verso i giornali si palesa in prima linea quando dall'estero si passa all'interno. In questo caso il fastidio si precisa: diventa insofferenza per «la forte ideologia padronale che regna in una stampa» dipendente da gruppi industriali. Anche in questo caso sono ignorati i fatti concreti, lamenta il Presidente: «Ci si accusa di avversare la flessibilità nel mercato del lavoro e il liberismo economico, quando l'Italia ha la porzione più alta di lavoro flessibile privo di ogni protezione e quando la sinistra ha priva- lizzato più di tutti i socialismi europei, se si esclude l'Inghilterra. Ci si accusa di aver creato una nuova Cassa del Mezzogiorno quando abbiamo fatto l'esatto contrario: abbiamo creato una società di sviluppo del Sud con un consiglio di ammmistrazione composto di soli cinque membri, dunque non più lottizzabile, al posto dei 127 delle nove società precedenti. Abbiamo deciso di scongiurare l'assistenzialismo e di favorire la nascita di un'imprenditoria privata capace di autosostenersi. Abbiamo dato vita a ben sei contratti d'area, dove non si applica il contratto nazionale di lavoro. Cos'altro significa questo, se non aprire la strada al massimo di flessibilità? La verità è che l'Italia di sinistra è un Paese cerniera, tra liberismo inglese generatore di diseguaglianza oltreché di lavori precari e statalismo francese che spera di curare i mali creando 300 mila posti pubblici per giovani disoccupati». Parlare con D'Alema fa venire idee e fa pensare, perché in lui non c'è solo smagato scetticismo. C'è anche tormento, interrogazione non conformista, dubbio. L'astensionismo dell'elettore alle provinciali non è frutto del ritorno dei partiti «ma piuttosto del loro degradarsi, del loro indebolirsi». Il liberismo economico è una scelta che si giustifica ma che deve essere equilibrata socialmente. E l'esperienza del comunismo è soprattutto condannata, in blocco. La nostra conversazione a Palazzo Chigi sta per concludersi, e D'Alema non esita a far proprie le critiche anticomuniste di Ratzinger, l'ideologo del Vaticano: «E' vero quel che dice Ratzinger. Quando le società hanno come solo valore il pane, finiscono per essere società vuote. E nel vuoto spirituale, alla fine, non si trova nemmeno più il pane». D'Alema è colpito dall'acutezza dell'alto dignitario cattolico. Quasi sembra disposto a perdonare quello che considera «il maggiore integralismo del Papa polacco: la sua indifferenza al tema moderno della libertà femminile». Meglio tutto sommato il cardinale Ratzinger che il leninista Suslov, se proprio si ha bisogno di ideologhi che facciano sopravvivere il senso di pienezza, nel vuoto mondo che ci tocca abitare. Barbara Spinelli KOHL «Al procèsso di unificazione purtroppo mancherà la grande visione di un Cancelliere che ha fatto la Storia della Germania» SCHROEDER «La Germania soffre di un egoismo economico che sta sfumando tra i partner della nuova Europa unita» BLAIR «Il primo ministro inglese è troppo attento ai sondaggi di opinione e a difendere la sua popolarità tra gli elettori» CLINTON «Se si vuole applicare una giustizia internazionale bisogna colpire tutti i colpevoli» JOSPIN «Nel suo modo di guidare la Francia c'è troppo statalismo e assistenzialismo» Massimo D'Alema (in una foto di Roberto Koch). Nelle altre foto dal basso:Kohl, Schroeder, Blair, Clinton e Jospin „ „_„»..«,.