UN SOGNO FELICE A GAZA di Igor Man

UN SOGNO FELICE A GAZA UN SOGNO FELICE A GAZA mente e storicamente. Parole che suonano come il riconoscimento de facto dello Stato palestinese. Uno Stato che è ancora un sogno (We have a dream, dicevano gli striscioni degli studenti di Gaza), e che forse prima di diventare realtà concreta dovrà passare per la cruna d'una lunga guerra politica. Separata dalla guerra vera solamente da un esile confine: fatto di buon senso e di stanchezza. «Quella ideata con Rabin era la pace dei bravi stanchi. Stanchi delle guerre combattute, stanchi di rassegnarsi ad un futuro di eterna guerra per i nostri figli, per i figli dei figli», così Arafat quando lo incontrai a Roma, durante la sua recente visita alla Camera di commercio italo-araba. Fu quella sera che mi disse, ridendo, di godere d'una pessima salute di ferro. «Qualcuno crede ch'io sia prossimo alla fine della mia strada, sicché tergiversa. Ma quando si accorgeranno che son tutt'altro che moribondo, si rassegneranno a negoziare con me quella pace che capricci insani potranno forse ritardare, come sinora è stato, ma non certo distruggere». Ora è pressoché scontato che ci saranno altri «capricci» insani, ma è del pari scontato che la pace «dei bravi stanchi» è scritta nella grande pagina del futuro. Gli è che tutti, e non solo in Medio Oriente, sanno come un giorno ci sarà uno Stato di Palestina. Piccolo, scamuffo, privo di sin troppe prerogative, ma uno Stato in ogni caso, al quale potranno far riferimento i palestinesi occupati, i palestinesi della diaspora. Il viaggio di Clinton a Gaza tutta a stellestfiscè - la'róttura col passato. Per chi acriticamente ha sempre dato ragione a Israele, soprattutto quando non l'aveva, per gli ultranazionalisti laici 'e non di Israele, la pace con Arafat è un «crimine», è una bestemmia. Guai chi cede a non ebrei una briciola della Terra avuta da Dio, dice la Torà. E infatti un pio giovinetto uccise Rabin che aveva appena cantato in piazza Meleq Israel, insieme con altre centomila persone, la dolcissima canzone Shir ha-Shalom, gli sparò perché il grande generale diventato il soldato semplice della pace era un rode/', secondo la Legge dei Re Maimonide. Che debbano vivere insieme, anzi convivere, israeliani e palestinesi è oramai scritto. Il problema è come, ha detto Clinton. Un Clinton che doveva sbloccare, e subito, l'ennesima impasse provocata dall'arroganza di un Netanyahu in debito d'ossigeno da Palazzo. Clinton non è un segretario di Stato che può far la spola tra mi vecchio fedayn convertitosi alla pace e un giovine sabra di destra per il quale la pace è una iattura. (Anche se dice il contrario, come durante dieci anni fece Shamir). L'impresa appariva difficile. E' mancato poco che Israele non lo dichiarasse persona non grata, ma, alla fine, il giovine Clinton l'ha spuntata. Buon per lui, ma per la pace bisognerà attendere (per la pace in buona e dovuta forma, dico). Poiché la pace non è soltanto il contrario della guerra, ma anche se non soprattutto la gioia di vivere liberi dalla paura. La paura più grande, quella della guerra che in Palestina, per triste paradosso, ha mietuto più che altrove. Recita il Corano: «Guai ai frodatori del peso che quando si fanno pesare la roba esigono una misura piena e allorché pesano per gli altri danno di meno» (LXXXIII, 1-2). Igor Man

Luoghi citati: Gaza, Israele, Medio Oriente, Palestina, Roma