L'addio al generale scomodo che ragionava da manager

L'addio al generale scomodo che ragionava da manager IL CORAGGIO DI UN UFFICIALE L'addio al generale scomodo che ragionava da manager u TORINO N generale col sorriso, un manager con greche e stellette, un uomo anche scomodo che non abdicava ai suoi convincimenti e alle sue idee. Francesco «Franco» Romano, 59 anni a Natale, moglie e un figlio iscritto all'Università, molisano con Torino nel cuore, è un ufficiale che ha lasciato il segno nell'Arma dei carabinieri. Lo ha fatto a modo suo, con l'impeto e l'entusiasmo di un carattere capace di coraggiose prese di posizióne. E avrebbe continuato a farlo anche dopo aver lasciato Torino. A febbraio, infatti, aveva in programma il trasferimento a Roma, con una stella in più, quella di generale di divisione, e con la prospettiva della nomina a capo di Stato Maggiore dell'Arma. Traguardo che avrebbe coronato la carriera cominciata all'accademia di Modena e alla scuola d'Applicazione di Torino, continuata come tenente a Genova e capitano ancora a Torino. Qui, dopo aver comandato il Nucleo radiomobile, era andato a dirigere (da maggiore) il reparto opertivo. Erano anni difficili e delicati, quelli del terrorismo. Poi l'esperienza in Sardegna (dove fondò il Nucleo Sommozzatori dell'Arma) e quella della Legione di Bologna. Infine, dopo una parentesi al Comando generale, il ritorno a Torino come generale di brigata. La sua è stata una carriera costellata da riconoscimenti, fra cui dieci encomi solenni e una medaglia d'argento al valor civile, meritata da capitano Da perfuo quando, a Torino, accorse in un affollato bar di corso Vercelli, dove era stata segnalata una bomba, e di fronte al rischio di una strage non esitò ad afferrare l'ordigno e a trasportarlo in strada. Non aveva fiuto solo per le indagini: pochi sanno che fu lui a lan- ciare l'idea di Torino candidata italiana alle Olimpiadi invernali del 2006. Lo fece il 19 settembre 1997, convocando sindaci e autorità di Piemonte e Valle d'Aosta nel salone delle feste della caserma Bergia. Li salutò, uno a mio, e poi prese il microfono: «Signori, c'è un'occasione unica per promuovere l'immagine turistica delle nostre montagne. Voghamo pensarci?». Quell'appello non cadde nel vuoto: adesso Torino è in corsa per quei Giochi. Romano temeva l'isolamento della città che riconosceva come sua: «Abbiamo perso l'Authority, molte imprese se ne vanno, l'alta velocità potrebbe non partire mai, l'Alitalia si defila. Non dobbiamo stare a guardare, anche perché il Piemonte ha una disoccupazione più alta della media del Settentrione». Discorsi da economista, ma perché in bocca a un generale dei carabinieri? «Perché è ora di finirla - raccontava agli amici nel salottino del suo ufficio, affacciato sul mercatino di Piazza Carlina - che un generale non possa mettere il naso fuori dalla caserma. Se la disoccupazione cresce, cresce anche la delinquenza: non bisogna essere scienziati per saperlo, eppure c'è chi preferisce ignorarlo. Se il mio compito è quello di garantire la sicurezza dei cittadini, io devo fare i conti anche con queste realtà, e le voglio conoscere a fondo». Era un ufficiale scomodo. A Roma, al Comando generale, ricordano ancora le sue sfuriate. Non usava perifrasi o giri di parole, andava diritto al nocciolo del problema. E non erano mancate scintille. Le ultime dopo un intervista a «La Stampa», alla fine di luglio, in cui denunciava lo spostamento di troppi carabinieri da Torino alla Puglia e alla Sicilia: «Una volta bastava una bandoliera come deter- e e r^nte: se c'era un carabiniere nel raggio di un chilometro tutti rigavano diritto. Oggi occorrono mezzi, uomini, determinazione, e molta più fatica, per ottenere lo stesso risultato». Non ha mai criticato le lamentele che salivano dalla gente: «Il piemontese non accetta, per ragioni legate alla mentalità e all'educazione, talune situazioni che sono invece tollerate da altri. Ma ha ragione: ci song frange del nostro territorio dove la legalità non esiste più, zone della città dove non tutti possono avventurarsi, aree di servizio lungo le autostrade controllate dagli extracomunitari». Frasi che avevano provocato un mezzo terremoto politico, reso ancora più violento dalle sue convinzioni in tema di forza pubblica: «Più che potenziare le forze di polizia è indispensabile, forse, che esse possano tornare ad assolvere i compiti per le quali sono state create e che smettano di supplire a carenze di altre istituzioni, di fare fronte a situazioni di emergenza che ormai sono diventate croniche, di assicurare l'isolamento di interi quartieri considerati a rischio, di garantire la libera espressione di pensiero a gruppi di persone che non condividono la nostra civiltà, non accettano il dialogo se non alle loro condizioni, che cercano di imporre mi modo di operare e di vivere che per loro è naturale, ma che per la gente comune si chiama anarchia». Quasi proverbiale la sua battaglia contro i trafficanti di droga. Ne comprendeva il pericolo soprattutto per i ragazzi, lamentava di potersi opporre con armi spuntate: «Non dimentichiamo che il Paese si è dato un ordinamento giuridico particolare: nuovo sistema sanitario, nuovo ordinamento penitenziario, nuovo codice di procedura penale, nuova legge scolastica. Tutte normative che hanno collocato la libertà dei singoli al di sopra di tutto ed esasperato il riconoscimento assoluto dei diritti dell'individuo, gentiluomo o delinquente». Il generale scomodo aveva però trovato amicizia e affetto. Quelli degli imprenditori e degli industriali, ma insieme quelli degli anziani e dei ragazzi, che amava incontrare in ogni occasione possibile, nelle conferenze dei centri culturali e negli ùicontri a scuola. Quando la notizia dell'imminente nuovo incarico era trapelata, non erano mancati i complimenti e gli auguri. Ma lui, come aveva sottolineato sorridendo appena giovedì scorso nel corso della cena natalizia con i giornalisti, ripeteva di voler essere giudicato soltanto come una persona. Chiamata a fare i conti soltanto con la propria coscienza, come tutti. «Un individuo da solo - aveva spiegato - non può cambiare il corso del mondo, ma non sarà un uomo se, in tutta la sua vita, non cercherà di fare quel briciolo di bene, infinitamente piccolo, apparentemente vano ma insostituibile, di cui è capace». Angelo Conti Avrebbe compiuto 59 anni a Natale e a febbraio si sarebbe trasferito a Roma con la prospettiva di diventare capo di stato maggiore L'anno scorso lanciò per primo l'idea di candidare la città all'organizzazione dei Giochi olimpici invernali del 2006 Da capitano fu decorato per aver portato una bomba fuori da un bar affollato Denunciò pubblicamente che Torino era impotente davanti al crimine

Persone citate: Angelo Conti, Bergia