UN DELITTO POST-APARTHEID

UN DELITTO POST-APARTHEID UN DELITTO POST-APARTHEID Gordimer, nuove frontiere morali UN'ARMA N CASA Nadine Gordimer rad. di Grazia Gatti Feltrinelli pp. 266 L. 32.000 TRENUO compito, quello di uno scrittore che si impegna, con se stesso e gli editori, a pubblicare un romanzo ogni due o tre anni. Può accadergli di avere il fiato grosso; però, se si tratta di un narratore di considerevole statura quale Nadine Gordimer, non è lecito catalogarlo, e basta. Questo, Un'arma in casa, appunto il nuovo romanzo della scrittrice sudafricana Premio Nobel, merita particolare attenzione perché è il primo ad affrontare il periodo del post-apartheid, una congiuntura, o meglio una svolta, ben lungi dall'aver placato la crisi acuta delle coscienze. La Gordimer è stata sempre maestra nel rappresentare le tormentose nevrosi dei bianchi dominatori durante l'apartheid, riuscendo forse meno stringente nel ritratto di personaggi di colore (uso questa espressione apparentemente ambigua perché «neri» risulta inadeguato nel contesto sudafricano). Questa volta le due dimensioni si intrecciano, innescando una serie ininterrotta di doppi. Un delit¬ to che appare a dir poco tortuoso si colloca al centro del romanzo. Duncan, un giovane sudafricano bianco figlio unico di una coppia liberale, è reo confesso di omicidio, per aver assassinato mi amico sorpreso in un rapporto sessuale con la sua ragazza. Ma l'amico Cari, più anziano di lui, ora ventisettenne, uno scandinavo piuttosto libertino, è un gay che in passato ha avuto rapporti con l'assassino. Non basta. Nel residence teatro del delitto, insieme a Duncan, a Cari e alla ragazza, Natalie, conviveva un terzo amico, egli pure gay e - si noti - di colore, Nkulukeko, detto Khulu Dladla, un nome sostanzialmente zulù. L'incrocio etnico si completa con la scelta che i genitori di Duncan fanno dell'avvocato, il quale si chiama Hamilton Motsamai, a sua volta, chiaramente, di colore. Motsamai, nel suo sottile e spregiudicato progetto di difesa, agisce come il personaggio deputato a scavare nelle coscienze e nel rimosso dei vari personaggi, a cominciare dal padre di Duncan, che nella religione cerca una consolazione salvifica, e dalla madre, che invece, esercitando la professione medica, si rivolge piuttosto alla psicoanalisi freudiana. Un ulteriore e vagamente pirandelliano tocco di melodramma di questo libro, peraltro condotto con non indifferente abilità soprattutto di linguaggio, vuole che Natalie fosse incinta, non si saprà mai se di Cari o di Duncan. La terza di copertina dell'edizione italiana del romanzo reca un capoverso ricavato da un'intervista della Gordimer, ove l'autrice osserva che, crollata' l'apartheid, «i romanzieri possono concedersi il lusso di scrivere dei libri più intimi, più personali». In un'altra intervista all'Observer, la scrittrice ha istituito un parallelo alquanto calzante con la situazione degli intellettuali militanti dell'Europa orientale, dopo il crollo del Muro di Berlino. Di che scriveie, adesso? Ma attenzione: se il rilievo vale per la Gordimer, non si applica agli scrittori sudafricani di matrice boera, al loro io perennemente e tragicamente diviso. Pensiamo al caso significativo di André Brink, il cui romanzo post-apartheid. La polvere dei sogni, va considerato uno dei più tragicamente sconvolgenti di tutto il suo complesso canone. D'altronde. Un'arma in casa, se rappresenta in apparenza un atto gratuito, non si può lecitamente ridurre a una «storia intima», un crime passionnel, come ha un poco semplificato Jack Miles recensendolo per il supplemento letterario del New York Times, non fosse altro che per un'altra domanda di fondo: in che misura il terribile potenziale di violenza e di morte proprio dell'apartheid è stato per cosi dire introiettato negli animi e nelle scelte di tutti, ma in particolare dei bianchi? Sotto questo profilo, Un'arma in casa appare fortemente paradigmatico, nel senso che le barriere razziali sembrano cadute, che Duncan può frequentare Nkulukeko e i suoi genitori scegliere l'avvocato Motsamai (il quale se la caverà assai bene) ma che il seme della violenza persiste, tanto più inquietante in quanto può provocare un delitto fondamentalmente casuale. La storia privata costituisce un rifugio, e magari un alibi, per lo scrittore. Rammentiamo, allora, almeno un fatto cruciale. In novembre ha presentato il suo rapporto finale la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, presieduta dal vescovo Tutu, Premio Nobel per la pace. La Commissione si è compiaciuta del proprio lavoro, in virtù del quale, per dirla in soldoni, elli ha confessato i suoi crimini politici ha ottenuto un condono. Qualcuno, da noi Piero Ostellino sul Corriere della Sera, ha manifestato compiacimento e plauso. Ma le cose non stanno proprio in questi termini. Un'autorevole componente della Commissione, in un articolo per il New York Times, si è mostrata assai critica e ha proclamato: «Prima la verità, poi la riconciliazione». La famiglia di una delle più grandi figure della lotta all'apartheid, quel Biko selvaggiamente torturato e assassinato, ha visto respinta dalla Suprema Corte un'istanza tesa a non concedere amnistia ai persecutori, tuttora - si badi - ignoti. Uno dei pilastri dell'apartheid, il vecchio Botha, lungi dal pentirsi, ne ha proclamato la sua legittimazione. Così, terza domanda, si ci può davvero «concedere il lusso» di rifugiarsi nel privato, un privato, a giudicare da Un'arma in casa, soltanto apparente e carico di simboli? La risposta a un simile dilemma si proietta come un'ombra lunga su tutta la cultura sudafricana di oggi, ma rimango della ferma opinione che quell'ombra varchi i confini, finisca per sostanziare una provocazione urgente che, davvero e non per moda, cannibalizza anche noi. Lo ha chiarito esemplarmente in un suo saggio proprio Brink: la sfida consiste nel «reinventare la storia e le sue frontiere morali». Claudio Gorlier vinse il premio Nobel nel 1991 UN'ARMA IN CASA Nadine Gordimer trad. di Grazia Gatti Feltrinelli pp. 266 L. 32.000

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