Ingrao e le ricette di Marx di Antonella Rampino
Ingrao e le ricette di Marx 1150 del «Manifesto»: l'errore? Sottovalutare la borghesia Ingrao e le ricette di Marx EROMA all'improvviso, sul palco del teatro Quirino dove si celebrava il secolo e mezzo della pubblicazione del «Manifesto del Partito Comunista» di Marx ed Engels, fece irruzione Heidegger. Sotto le spoglie di uno dei mostri sacri dell'operaismo d'antan, il piccolo e tenacissimo Mario Tronti, il cui ultimo testo, sacro per i marxisti, «Operai e capitale», è di trent'anni fa. Tronti dice non solo che «il Manifesto è ingiudicabile dal punto di vista intellettuale, poiché non è un libro, ma un atto politico, la messa in pratica dell'undicesima decisione di Feuerbach», che sarebbe poi quella in cui si dice che la storia non va interpretata, va fatta. Ma dice, soprattutto, che la vera grande novità politica del Manifesto non è la lotta del proletariato che rovescerà il mondo, non è la globalizzazione, e neppure l'idea da cui poi nascerà la famosa «teoria dei bisogni». No, la grande novità di quelle 23 pagine pubblicate centocinquant'anni fa sta nel fatto che esso alla dialettica tra il vecchio e il nuovo, che è ancora oggi la grande trappola in cui s'infilano i progressisti, sostituisce quella tra il sopra e il sotto, tra l'alto e il basso della società. E il modo con cui Tronti esprime questa critica all'oggi, nell'esegesi di un saggio di ieri, è molto heideggeriano: «Col Manifesto l'interruzione non è più nella linearità della freccia del tempo, ma nella circolarità dell'eterno ri- torno». Il che significa che nell'innovazione il sistema capitalistico è imbattibile, inseguirlo su questo terreno è un suicidio; e poi che è inutile sostenere che non c'è più il proletariato, che lumpen sono oggi i ceti medi. «Bisogna trarre un'astrazione concettuale, questo è il compito del pensiero, da quello che per Marx era il proletariato concreto»: ovvero, trovare altri soggetti della lotta che di classe non è più. Tronti ha avuto anche una polemica con Rossanda, la quale da sempre sostiene che una teoria come il marxismo, che non viene messa in pratica perché la rivoluzione non è data, non è più nemmeno una teoria. E no, risponde Tronti, «il limite del marxismo è stato quello di essere una filosofia della prassi, il non aver elaborato una concezione del mondo complessiva». Alla fine di un convegno che ha visto tra i silenti uditori tutti i comunisti nell'arco compreso tra Emanuele Macaluso e Toni Negri, per dire due posizioni in diverso modo estreme, passando per Valentino Parlato e Adalberto Minucci che non hanno fatto'mistero'di annoiarsi uh po', ha preso la parola Pietro Ingrao, riportando all'oggi la discussione. Perché, dice il grande saggio della sinistra italiana, se è vero che «Il Manifesto» ha fornito alla sinistra di tutto il mondo un vocabolario e dei paradigmi che oggi non sono più solo marxisti, vero è anche che il suo limite grande - limite del testo, non della completa opera del suo autore - è l'aver sottovalutato la borghesia. «La quale, compagni, è articolata, è stata capace di coniugare universale e locale, definendosi al tempo stesso sociale e produttiva, fondendosi e diversificandosi col sentire religioso, sapendo innestare nella società il peso determinante delle necessità capitalistiche, articolando lo Stato e le istituzioni». Il rimprovero di Ingrao non era poi solo questo, perché «già nel '68, con le lotte per la salute, dovevamo capire quali ponti occorresse gettare». E poi, soprattutto, con Marx che era figlio della società patriarcale dell'800, si è sottovalutata l'altra metà del cielo: e, con essa, «il corpo, l'oscuro, il non codificato, il non rappresentabile politicamente». Quello, insomma, che i nouveaux philosophe degli anni Settanta chiamarono «il desiderio», contrapponendolo così al «bisogno» di cui parlava Marx, attuale ancora oggi. Antonella Rampino Jll,: Tronti polemizza con Rossanda «Il limite è non aver elaborato una filosofìa complessiva»
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