«Servono dialogo e autorevolezza»

«Servono dialogo e autorevolezza» «Servono dialogo e autorevolezza» «Il mio mestiere di insegnante nella scuola di trincea» MILANO. «Noi insegnanti dobbiamo essere un po' educatori, un po' poliziotti e pure assistenti sociali. Ma l'autocontrollo, non possiamo perderlo mai...». E' sonora la bocciatura per il professore di Monterotondo, da parte di Nicoletta Castelli Dezza, 15 anni dietro alla cattedra in una scuola media, da quattro anni all'istituto Gramsci del quartiere Barona, periferia milanese di nebbia e casermoni di cemento, ragazzi difficili e a volte genitori in carcere. Professoressa Castelli Dezza, va iene l'autocontrollo, ma a volte... «No, certi casi come quello alle porte di Roma non sono giustificabili». A lei non è mai capitato? «Anni fa, per uno scatto d'ira ho dato una sberla a un mio alievo che mi aveva risposto dicendo: ma che c... vuoi? Non ho dormito per tre notti, pensavo di lasciare l'insegnamento». A volte però si creano casi difficili. In una scuola di frontiera come la sua... «Una volta è capitato che un ragazzo, dodici anni, entrasse in classe con un coltello. Per farlo vedere agli amici, per minacciare i più piccoli». Elei? «Sono intervenuta, gli ho preso il coltello, ne abbiamo parlato anche con i suoi genitori». Poi lo avete sospeso, giusto? «No, non serviva. Essere troppo drastici può essere controproducente. Bisogna intervenire prima che la situazione degeneri, ma è sempre meglio aprire al dialogo. Quando si può, anche con i genitori». Perché, quando si può? «Perché nella mia scuola ci sono genitori che sono finiti in carcere, che si disinteressano dei loro figli o che all'opposto sono troppo iperprotettivi. Ci sono genitori che si sono picchiati davanti a scuola, per le rivalità dei loro figli. Così come ci sono ragazzi che mutuano certi atteggiamenti, sul modello dei genitori. Io non credo che esistano scuole di frontiera o ragazzi particolarmente difficili, tutto dipende da come ti poni nei confronti dei ragazzi. C'è chi usa le mani e non serve a nulla. C'è chi urla e serve ancora a meno». Linea morbida, quindi? «Non proprio. Se l'insegnante è troppo debole, le provocazioni possono essere continue. Ci sono ragazzi, ma anche ragazzine di dodici o tredici anni, che all'arrivo dell'insegnante, per sfida si alzano dal banco e lasciano l'aula». Che cosa bisogna fare, allo¬ ra? «Impedirlo, con il dialogo e l'autorevolezza. Basta poco, per disinnescare certe tensioni. Più che insegnare, certe volte dobbiamo riuscire a gettare un ponte verso il dialogo. L'anno scorso avevo tre terze medie, nessuno di loro è andato alla scuola superiore. E' quando hai di fronte ragazzi così, che devi scoprire che oltre a essere un insegnante sei anche un educatore, un assistente sociale». E un poliziotto, ha detto? «Massi, anche un poliziotto. Non puoi permetterti che la situazione sfugga di mano. Anche quando sembra disperata». Lei ha quattro figli, il più grande ha 15 anni, la più piccola solo 5, sono tutti in età scolastica. Usa lo stesso metro anche a casa? «Certamente. Ma è soprattutto a scuola che cerco di mantenere il controllo. A casa con loro, posso anche urlare». E a scuola, i ragazzi più difficili, finiscono in un angolo... «Tutt'altro. Quando hai a che fare con extracomunitari che non parlano nemmeno una parola d'italiano, quando non hai colleghi di sostegno, ci vuole più impegno. I ragazzi più aggressivi poi, sono quelli che mi interessano di più. La loro intelligenza mi incuriosisce». Non le piacerebbe insegnare in una scuola del centro? «Io non mi sono mai sentita un'insegnante di trincea, ma a questo punto non so se insegnerei in una scuola diversa. Qui da noi ci sono bravi insegnanti, la preside si fa in quattro e quando riesci a creare un buon rapporto anche con i ragazzi più impegna¬ tivi, mi vien da pensare che il bello dell'insegnamento sia proprio questo». Sempre che non si arrivi come gli Usa, con i metal detector all'ingresso della classe... «Non sono così pessimista. Prima di arrivare a quello, un insegnante ha modo di cogliere mille segnali e intervenire prima. Ci vuole anche il colpo d'occhio, per insegnare». Più dei calci, sembra di capire. E a questo suo collega laziale, che cosa direbbe? «Se è un bravo insegnante come ho letto sui giornali, sarà il primo a soffrire della situazione, di quello scatto d'ira non controllato e molto violento. Solo lui, sa se vuole e può ancora insegnare». Fabio Potetti «Un ragazzo di 12 anni entrò in classe con un coltello: lo presi, parlai coi genitori, e non fu sospeso, perché essere drastici è controproducente» La scuola media di Monterotondo, vicino a Roma, al centro del caso del bambino picchiato dall'insegnante

Persone citate: Castelli Dezza, Fabio Potetti, Nicoletta Castelli Dezza

Luoghi citati: Milano, Monterotondo, Roma, Usa