Le «esternazioni», che dramma di Filippo Ceccarelli
Le «esternazioni», che dramma Le «esternazioni», che dramma Dall'estero iping-pong con il cortile di casa DA PERTINI A COSSIGA ROMA ERVOSISMI, sospiri, smentite, precisazioni, chiarimenti al qua e al di là dell'oceano. Traduzioni incerte, fusi orari impietosi, giornalisti allertati nel cuore della notte, protocollo in frantumi, briefing annullati, ceno indigeste, rassegne stampa a intasare i fax e soprattutto lo sconcerto dei padroni di casa che non riescono a seguire e talvolta nemmeno a capire quel che di funesto sta accadendo nella carovana presidenziale italiana. E' un po' la maledizione della buvette di Montecitorio, la bega internazionale che divampa all'estero e accompagna la visita di Stato con il suo strascico di polemiche inteme. «Vi portate sempre dietro il bar della Camera», diceva livido di rabbia ai giornalisti il presidente De Mita quando nel dicembre di dieci anni fa, giunto a Los Angeles per celebrare l'anniversario del Piano Marshall e quindi a Washington per incontrare Reagan, Bush e Shultz, si vide sistematicamente interrogare su una certa improvvida dichiarazione di Angiolino Sanza, al culmine dell'Irpiniagate. Di lì a poco, effettivamente, Sanza si dimise. Ma quelli furono per De Mita quattro-cinque giorni di tormento. Lui, passeggiando per la Avenue of stars, voleva parlare di Gorbaciov e invece gli chiedevano del patto con Craxi, che proprio in quei giorni pretendeva «il caffellatte servito a letto dalla De». Stesso supplizio nell'aprile del 1989, con i risultati del congresso De del Palaeur che in qualche modo si fecero sentire pure al cospetto dell'imperatore del Sol Levante. Il presidente italiano era infatti partito per il Giappone lasciandosi alle spalle un colloquio-intervista in cui si chiedeva, tra l'altro, cosa fosse «la De senza De Mita». Sedici ore di volo, e a Roma era scoppiato il putiferio. All'arrivo, tra comunicati e contro-comunicati, cominciò una partita di tennis su un campo lungo 10 mila chilometri. Il disappunto demitiano si comprende anche. Di solito i presidenti varcano i confini (anche) per assumere un rilievo e un prestigio internazionali e invece si ritrovano schiacciati sulla più ritrita cucina nazionale. Invano cercano di esorcizzare il pericolo di ogni possibile gallinaio d'esportazione. E infatti promettono: «All'estero non parlo di politica interna». Ma poi, al dunque, nessuna regola è più disattesa di questa. I giornalisti, in realtà, c'entrano fino a un certo punto. Idem i presidenti - della Repubblica o del Consiglio non fa molta differenza. Con qualche ragionevole approssimazione, e comunque sulla base dell'esperienza, si può dire che questi particolari incidenti non solo vivono di vita propria, ma sono ormai da considerarsi inevitabili. A Scalfaro, tutto sommato, che è un veterano, non è andata neanche troppo male. 0 almeno: nel giugno del 1995 fu raggiunto nottetempo da un violento attacco più o meno personalizzato dell'allora ministro Mancuso (che parlò di «Catoni solenni e pensosi») durante uria tranquillissima visita in Brasile. Dini era a Cannes, non ci si capiva niente, i giornalisti furono costretti a scrutare ipotetiche rispo¬ ste nell'allocuzione presidenziale al parlamento di Brasilia. Un anno dopo, a Washington, e precisamente nel South Lawn o prato sud della Casa Bianca, alcune indecifrabili recriminazioni sul semipresidenzialismo, e sul fallito tentativo Maccanico, nientemeno, vennero a squarciare la solennità di una conferenza stampa con Bill Clinton. Era Fini, da Roma, che si agitava contro Scalfaro per l'intervento al Parlamento messicano: «Family feud» (lite in famiglia) fu costretto a sdrammatizzare il presidente americano, richiamando il titolo di un famoso programma televisivo. A Fini arrivò in seguito, come chiarimento, la videocassetta me- xicana. Anche Pertini, certo, ebbe i suoi guai. Durante una visita in Spagna, un incauto intervento presidenziale, sull'aereo, a proposito del caso Cossiga-Donat Cattili, portò al licenziamento del capo dell'ufficio stampa del Quirinale Ghirelli. Ma la stagione più densa di ping pong transoceanici, e comunque; di incidenti' di polgica interna con platea internazionale, è senz'altro collegata all'ultima fase del settennato di Cossiga. Trovandosi in Ungheria per ricordare i luoghi della rivolta del 1956, il presidente italiano fu centrato da una battutaccia di Gava a proposito di un «collo senza testa»: il suo presumibilmente. Cossiga rispose richiamando «una testa senza collo». Il tutto, mirabilmente, al cimitero di Budapest. Nulla a paragone del fantastico viaggio del maggio 1991, pure con Andreotti, in Islanda e America per il Colloquium Tullianum ciceroniano. Indimenticabile, nel paesaggio di rocce nere e di erbe macerate dal ghiaccio, la faccia del leader islandese Finnbogadottir mentre Cossiga se la prendeva con «la direzione di piazza del Gesù» o con Rodotà. Strepitosa l'espressione interrogativa dei giornalisti americani, al Mayfair Regent Hotel, nel sentire le picconate presidenziali su Gava, Mancino, Famiglia cristiana, Bruno Vespa, Pippo Baudo e «la nota lobby» (which lóbbyM). Filippo Ceccarelli Qui accanto Sandro Pertini Nella foto a sinistra Francesco Cossiga A destra l'ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita
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