WEIMAR: GLI ERRORI DI UNA DEMOCRAZIA

WEIMAR: GLI ERRORI DI UNA DEMOCRAZIA WEIMAR: GLI ERRORI DI UNA DEMOCRAZIA 80 anni fa: la Repubblica che non seppe farsi amare RAVAMO i curatori fallimentari del vecchio regime, i campi erano vuoti, le provviste calavano, il credito era scosso, il morale sotto i piedi. Abbiamo impegnato tutta la forza per combattere i pericob' e la miseria. Abbiamo fatto tutto per mettere in moto la vita economica. Se il successo non corrispose ai nostri desideri, vanno adeguatamente valutate le circostanze che lo impedirono». A parlare a nome del neonato governo democratico del popolo tedesco è un ex sellaio di Heidelberg, assurto ai massimi vertici del potere, primo presidente della Repubblica di Weimar: il socialdemocratico Friedrich Ebert, nato nel 1871 e avviato, sin da giovane, a una folgorante carrirea politica, iniziata a vent'anni come redattore a Brema dell'organo di stampa del suo partito e proseguita con la nomina a presidente della Spd nel 1913, come successore di August Bebel. Ebert nel suo discorso dava un preciso connotato all'esperienza della prima Repubblica Tedesca, proclamata in un frenetico pomeriggio del 9 novembre 1918: i politici chiamati a tenere le difficili redini della Germania del dopoguerra per il neocancelliere non erano i padri fondatori di una Repubblica democratica, bensì i curatori fallimentari dell'eredità della Germania imperiale appena uscita dal disastro dell'esperienza bellica e appesantita dalle ingiuste riparazioni di guerra. Sono trascorsi ottant'anni dal battesimo della prima democrazia tedesca, conclusasi con il trionfo di Hitler. Adesso, per ricordare l'esperienza di Weimar, esce anche in Italia la monumentale ricerca di uno dei maggiori studiosi germanici, Heinrich August Winkler: Weimar. H mastodontico saggio di Winkler, che ripercorre tutte le tappe di quei convulsi 15 anni, ha< l'andamento di un- racconto. L'autore indaga contemporaneamente sui vari piani - economico, sociale, politico, militare ed ideologico - e restituisce un elaborato affresco delle drammatiche condizioni di vita della Germania assediata dall'inflazione galoppante, dall'odio dei reduci, dalle sanzioni imposte dai vincitori, dal desiderio di rivalsa di latifondisti, industriali e artigiani privi di crediti e di materie prime: il tutto accompaganto dal senso della sconfitta e dal bisogno di rinnovamento. Una domanda corre per tutto il saggio di Winkler: Weimar si sarebbe potuta salvare? Il suo fallimento era inevitabile? L'interrogativo, osserva lo studioso, oggi appare tanto più attuale, poiché fino al 1990, anno della riunificazione dei due Stati tedeschi, il periodo della prima Repubblica ha rappresentato l'unica fase il cui la Germania fu insieme una democrazia e uno Stato nazionale. Weimar si riaccosta al presente non più come preistoria del Terzo Reich, ma come precedente della seconda democrazia della Germania unita. Il fallimento non era affatto, spiega Winkler, l'unico esito che si apriva davanti ai politici e ai legislatori, ancorché privi di esperienza nel campo della democrazia parlamentare. Certo, non pochi furono gli ostacoli che il governo dovette superare: così, fra i socialdemocratici fu difficile trovare, nel 1918, le competenze necessarie per occupare tutti i posti di comando nello Stato e nell'economia. Celebre, all'epoca, il caso del segretario di Stato Solf, che presentò domanda di pensionamento perché aveva provocato uno scandalo: si era rifiutato di dare la mano al delegato del popolo Haase, che era, si diceva, a conoscenza di rimesse di denaro russo per finanziare la rivoluzione in Germania. Ma questo episodio fu un'eccezione: funzionari, procuratori di Stato, giudici, accademici rimasero ai loro posti anche se noti come sostenitori del passato regime e segarono le gambe alla giovane democrazia, contribuendo al suo affossamento. Quale è oggi il più profondo interesse per l'epoca di Weimar? Quale eredità ci ha lasciato? «Intanto dobbiamo praticare una lettura antideterministica del periodo 1918-1933: non possiamo darne per scontato lo sbocco e considerare Weimar l'anticamera del nazismo», commenta il politologo e storico della Germania Gian Enrico Rusconi, che a Weimar ha dedicato alcune delle sue più importanti ricerche, «il trionfo del nazionalsocialismo non era affatto inevitabile e scontato. Basta un esempio: quando Hitler, il 30 gennaio del 1933, andò al potere, non era un dittatore bensì il Cancelliere di un governo di destra. La fine della democrazia in Germania non coincise con l'affermazione del totalitarismo, che si realizzò successivamente. Nel caso di Weimar l'istituzione non fu in grado di reggere. Personaggi come Rudolf Hilferding, ministro delle Finanze, giocarono molte delle proprie carte sulla tenuta istituzionale della Repubblica, senza esortare i lavoratori a scendere in piazza. Hitler, più abilmente, seppe muoversi a vari livelli, sulla mobilitazione di massa, e contemporaneamente seppe conquistarsi alleanze nelle strutture statali e tra gli uomini della destra più tradizionale. A incrementare la tremenda incertezza del quadro politico vi erano poi i comunisti, che perseguivano l'obiettivo del "tanto peggio tanto meglio" avendo alle spalle l'Urss, cui faceva comodo la destabilizzazione dell'Europa». Siamo molto lontani da Weimar, oggi niente è in comune con quel disastrato crocevia dell'esperienza democratica: eppure quella vicenda è ancora in grado di restituirci alcuni insegnamenti fondamentali. «Se si mette mano alle istituzioni è meglio fare molta attenzione al loro funzionamento. I costituenti di Weimar fecero gravi errori - osserva il politologo Angelo Panebianco -, crearono un sistema presidenziale troppo forte a cui si contrapponeva un'eccessiva frammentazione parlamentare. La Repubblica di Weimar ebbe veramente troppi nemici, tra cui molti settori e apparati dello Stato, come i militari e la burocrazia. A questo si aggiunse l'ac- canimento con cui le potenze occidentali pretesero le riparazioni di guerra e poi, indubbiamente, senza la grande depressione del '29 la destra non sarebbe andata al potere. Un ulteriore ammaestramento che viene da quella lontana vicenda è che bisogna sempre cercare di contenere le spinte massimaliste». Ma le ragioni della fine di Weimar non si devono ricercare solo nel fallace meccanismo istituzionale: hanno radici più profonde. «Non fu solo il sistema elettorale basato su un proporzionalismo puro che favoriva la frammentazione politica e l'instabilità governativa a tradire Weimar e a decretarne l'affossamento», osserva il defeliciano Francesco Perfetti, direttore di Nuova Storia Contemporanea. «Da tanti punti di vista - artistico, letterario -, l'esperienza republicana e democratica tedesca è stata un episodio molto fecondo. Ma la maggioranza della popolazione non era disponibile ad accettarla. Gran parte dei tedeschi assimilava Weimar all'esperienza della guerra perduta. Tendenze antirepubblicane segnavano larghi settori dell'esercito, della magisratura, della burocrazia. L'insegnamentio che Weimar ci offre è di natura morale, e cioè che un regime deve essere amato dalla popolazione, mentre Weimar fu una Repubblica non amata dai repubblicani». Mirella Serri Panebianco: «Sistema presidenziale troppo forte». Rusconi: «Non fu l'anticamera del nazismo». Perfetti:1 «Era ÌT simbolò °| della guerra perduta*. Tradotto il saggio monumentale di Winkler che ripercorre le tappe di quei convulsi 15 anni che portarono a Hitler Ragazzi di Weimar ad una manifestazione comunista del 1928 WEIMAR 1918-1933 Storia della prima democrazia tedesca Heinrich August Winkler Donzelli editore pp. 800 L. 45.000