Leopardi relatore della propria sofferenza

Leopardi relatore della propria sofferenza DALLA PRIMA PAGINA Leopardi relatore della propria sofferenza noscritti, rafforza l'impressione di un Leopardi innanzitutto relatore della propria sofferenza, altamente, magistralmente monotono nella ripetizione e spiegazione dei mali che lo tormentano: a Recanati, «orribile e detestata dimora, e già morto ad ogni godimento e ad ogni speranza», egli non «vive che per patire, e non invoca che il riposo del sepolcro»; uomini e donne «gli paiono piante e marmi per la noia che prova nell'usar con loro»; la sua «vita esteriore ed interiore è tale, che sognandola solamente, agghiaccerebbe gli uomini di paura». La crudeltà immutabile - casuale, significante? - della concatenazione degli eventi ha scelto lui quale bersaglio vulnerabilissimo e specialmente sensibile. Dov'è l'uomo più disperato di lui? chiede a Pietro Giordani; che speranza gli rimane? che cos'è la virtù? A vent'anni egli è «moralmente vecchio, anzi decrepito», perché «il sentimento e l'entusiasmo ch'era il compagno e l'alimento della sua vita, è dilegua- to». Più spesso sono i disgusti e i mah fisici - l'irregolarità della digestione, le infreddature, la malattia degli occhi (curati con il «sublimato corrosivo») - che scandiscono tristemente, quasi follemente l'intera sua esistenza, come in una specie di tollerabile eternità del malessere: «In me veramente non è cagione necessaria di morire presto - scrive an¬ cora al Giordani - e purché m'abbia infinita cura, potrò vivere, bensì trascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida». Male di vivere e mah fisici si inducono reciprocamente, e necessariamente, nella vita di que¬ sto giovanissimo, poi giovane, poi quasi giovane valetudinario, che affida alle lettere un terribile lamento, una specie di urlo. Eppure sbaglierebbe chi vedesse nell'Epistolario un mero effetto di soggettività o, peggio, di intimità (sbagliavano De Sanctis, Momigliano, lo stesso De Robertis con i suoi riscontri unilaterali d'un «continuo crescente moto in profondo»): Leopardi anche formalmente parla a nome di tutto il genere umano; la sua «philosophie désespérante» non è il risultato di mali particolari ma di una sfida alla viltà e alla «làcheté des homme» (al De Sinner). Solo la debolezza degli uomini vuol persuadersi del merito dell'esistenza, mentre la forza dell'infelice Leopardi consiste nell'assumersi il demerito, cioè il non senso di essa. Dunque particolarmente i mali d'occhi, denti, stomaco, gambe, piedi di cui Giacomo si lagna alludono al male radicale, alla nullità delle cose, ma anche all'impegno di contrastarli e sconfiggerli in una più alta forma di necessità: il tedio o athimia, cioè il venir meno dell'anima di fronte al non senso del mondo, diventa una forza dell'anima, un'aspirazione irresistibile di tutto l'essere a farsi «grande ed eterno». In mancanza di un ordine del pensiero nel mondo e di un ordine del mondo nel pensiero di Dio, la possibilità del poetico è la schiacciante vittoria di Leopardi sull'esperienza vissuta. E se in effetti le Lettere non sono «letterarie» (né potrebbero proporsi, al pari delle Operette, come un modello letterario assoluto) contengono però cariche enormi e inesplose di letteratura, di poesia. Questa edizione Brioschi, riproducendo felicissimamente le lettere dei corrispondenti, aggiunge o circonda Leopardi di un senso di «cose umane» e di intreccio che, nel solo, estremistico poeta cercheremmo invano. Quando Pilla (Paolina) scrive: «Giacomuccio mio» e il Pepoli: «Mangio molte erbucce con molte tagliatelle» e Carlo (il fratello): «Amo Mariuccia diabolicamente», nel buio di Giacomo balena una calda, breve luce. Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio questa stessa luce è detta, più teoreticamente, «senso dell'animo», qualcosa per cui la vita riprende quella sua «apparenza» e si mostra «non indegna di qualche cura». Giorgio Flcara Un ingresso al giardino della casa che fu di Leopardi

Persone citate: De Robertis, De Sanctis, Giorgio Flcara, Leopardi, Momigliano, Plotino

Luoghi citati: Recanati