L'eroina dei Surrealisti

L'eroina dei Surrealisti La rassegna milanese riscopre un affascinante personaggio delle avanguardie L'eroina dei Surrealisti Meret Oppenheim, musa ribelle jl MILANO I L nome inconsueto, MeI ret, i genitori lo rubarono I al romanzo di Keller, En_ÀJ rico il Verde: una fanciulla-strega che domina la natura, incanta i pesci e i serpenti velenosi. Quasi un destino: smette di andare a scuola molto presto, annuncia al padre di voler diventare un'artista, sceglie proprio i serpenti come demoni buoni del suo immaginario sotterraneo. Non è vero che sono stati loro a dannare Eva, anzi, hanno trasmesso il sapere proibito e creativo che poi passerà ai maschi. Sotto la sky-liìw educato e geometrico di Brasilia, covano giganteschi e sornioni, ciclopici uroburos che si mordono la coda, pronti a riprendersi la vita e lo spazio dell'immagine. A17 anni il percorso di Meret Oppenheim è segnato: stabilisce una privatissima equazione lewiscarroliana «x=coniglio» e vi adegua la propria visione del mondo, prevedendo (grazie ad uno dei tanti sogni di cui riempiva i suoi taccuini, quasi schizzi da elaborare) la propria data di morte: durante la prima nevicata, a 72 anni. La stimolante mostra milanese, curata da Martina Corgnati, con oltre trecento pezzi, fa rivivere questa Musa insubordinata del Surrealismo, eroina strana e imprendibile, ferocemente macabra ma anche leggera e apparentemente spensierata, una doppia personalità. La sua è una storia di creatività combattuta, di depressioni lunghe anche 19 anni, in cui distrugge molte delle sue opere, di amori difficili e senza confini: passa da grandi passioni femminili a quella impossibile per Giacometti, s'innamora ricambiata di Max Ernst - che, ammette, «è l'unico artista cresciuto sino a superarci» - ma sposa un onesto commerciante, quasi a deridere l'amour firn bretoniahò. Peccato manchi in mostra l'inquientante fotografia di Man Ray che la rappresenta nell'atelier dell'orco-pittore Marcoussis, co- me all'interno di un sanguinoso racconto nero: affacciata alla macchina di tortura d'un torchio litografico, il braccio impastricciato dal sangue nero d'inchiostro, prova manifesta del delitto d'arte. Sarà pur vero che questa rassegna risulta essere una delle più complete mai organizzate. Ma com'è possibile fare una retrospettiva esauriente senza Ma gouvernant-my nurse, celebre ready-made d'un paio di scarpe con tacco a spillo travestite da tacchino sul vassoio del Giorno del Ringraziamento, o ancor peggio, senza l'imprescindibile icona, emblematica dell'avanguardia Novecento, quella geniale tazza da tè al pelo, che si chiama Colazione in pelliccia, feticistica prova dell'esistenza del vuoto? Sarebbe come registrare la Quinta di Màhlèr senza il leggendario Adagetto o stampare il Gattopardo privo della proverbiale pagina sul «se voghamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cam- bi». Snobismi o problemi col prestito? Né basta un poster anni 70 en souvenir anche se bene riflette la poetica di questa Divina dell'arte mentale, che sapeva disegnare con talento (lo dimostrano certi topini alla Dùrer o certi esercizi art brut) ma che rifiutava ogni dedizione alla forma conclusa: «Negli ultimi giorni - teorizzava non ho lavorato molto. Piuttosto, a lungo, e noiosamente, ho portato a termine la donna. Il mio sogno sarebbe di avere un operaio che mi fa le cose, io inciampo nella tecnica». Ed è bella anche quell'ambiguità: voleva portare a termine se stessa, come sogno di androgino, oppure una donna in plastilina? Si annoiava, non tanto a pensare, ma a realizzare: e questa è l'immagine prima che ti viene incontro sfogliando il catalogo Skira (dove saranno magari refusi, ma che ricercatezza inventare la parola carisma con l'acca, oppure priscopatologia!). L'immagi¬ ne di una donna geniale, piena di spunti, che corteggia comunque pericolosamente l'insofferenza ad ogni risultato estetico. E invece, se ci si abbandona senza pre-giudizi a visitare con minuzia questo caravanserraglio d'immagini-trovate e di cosepensiero, questo tripudio di parabricolage lietamente mentale, bianco, si scopre il suo sotterraneo gusto per la materia e per la pittura, sia pure svaporata. Un'opera significativa, tra Man Ray e Duchamp, si chiama appunto Parola imballata in lettere velenose: (diventa trasparente). Un pacchetto in fil di ferro (non c'è che lo scheletro) che trattiene all'interno, quasi un fiato sfuggente, il nulla plasmabile dell'immaginario. «Non si sa da dove arrivino le idee, portano la loro forma con sé, così come Athena è uscita dal capo di Zeus con l'elmo in testa, così mi arrivano le idee con le loro vesti». Gioca con le cose come se fos¬ sero parole incrociate. Prende un boccale di birra e lo trasforma in scoiattolo. Dipinge una marmitta che diventa una termite gigantesca e giocattolona. Sceglie l'orecchio di Giacometti, in cui ha versato tanti vani sospiri d'eros, e lo traduce in monile neo-gotico, in capolettera di bronzo. Al collo di una signora appende un convegno di ossicini, o una dentiera disegnata che stringe una sigaretta: di sé offre un'immagine ancora più «nuda», una radiografia del cranio. Ma non smette la civetteria dei monili intorno a un noncollo: vanitas e vanità. Sovrana ironia. E ribalta il precetto di Loos: è il delitto che è ornamento. Marco Vallora Meret Oppenheim Milano, Refettorio delle Stelline Tutti i giorni dalle IO alle 19 Fino al 30 gennaio Dietro il tripudio di cose-pensiero si cela un gusto sotterraneo per la materia «II bozzolo» di Meret Oppenheim, piccola opera (9x13x16) che risale al 1974. Nella mostra milanese manca purtroppo una celebre fotografia dell'artista scattata da Man Ray nell'atelier del pittore Marcoussis, che la rappresenta come all'interno di un sanguinoso racconto nero

Luoghi citati: Brasilia, Milano