Il Colonnello che non vuole decidere di Igor Man

Il Colonnello che non vuole decidere LA DIPLOMAZIA DEL DESERTO Il Colonnello che non vuole decidere Le tensioni interne dietro le ambiguità del leader N aereo grande; un Jumbo del volo Pan Am 103, volava un giorno nel cielo della Scozia, carico di passeggeri (in numero di 259), e di allegria. I duecentocinquantanove erano partiti da Francoforte, diretti a New York, via Londra. Andavano incontro al Natale, ai bambini le hostesses avevano distribuito piccoli Santa Claus carillon: bastava alzargli un braccio e sarebbero sgorgate le note di Jingle Bell. Il corposo Jumbo volava sicuro nel terso cielo dicembrino, l'aria pressurizzata spandeva nella cabina il profumo rassicurante della torta al limone, del buon caffè americano. Un po' tutti a bordo, dal comandante all'ultimo Stewart, sognavano il Natale oramai prossimo, poiché come ha scritto in poesia Paul Valéry: alla vigilia dell'evento / è possibile sognare / anche un solo momento. Ma sulla lavagna del destino (e questo nessun poeta avrebbe mai potuto saperlo) a caratteri più forti, i cattivi avevano scritto la parola fine. E infatti il grande aereo sicuro portava insieme col suo carico di vita e di speranza e di gioia (anticipata) del Natale, una valigia assassina. Che a un certo momento esplose, nel cielo di una cittadina scozzese chiamata Lockerbie. E così fu che i passeggeri e l'equipaggio, tutti, morirono uccidendo nell'impatto con la terra altri undici innocenti. Non più appuntamento con Santa Claus ma col buio senza fine della morte. Era il 21 di dicembre dell'Anno del Signore 1988. E questo che sta per arrivare, il Natale del 1998, dieci anni «dopo», vede figli cresciuti, genitori invecchiati, parenti vicini e lontani tuttora senza una risposta: chi è stato?, chi ha ucciso i nostri cari, chi ha rubato loro la vita mentre volavano felici di tornare a casa per il Natale, e sarà un giorno resa giustizia agli innocenti? Le indagini, dieci anni fa, puntarono subito verso i Servizi siriani poi, però, vennero dirottate sulla Libia di Gheddafi, finché il 14 di novembre del 1991 i giudici inglesi e americani non spiccarono mandato di cattura contro due presunti «agenti» libici: Abdel Baset alMegrahi e Al-Amin Khalifa Fhiah. Successivamente, il 27 di novembre del 1991, Londra, Parigi e Washington chiesero l'arresto dei due sospetti e la loro estradizione. Di seguito a un vortice di smentite, di controsmentite, di minacce, di dichiarazioni su tutti i toni di Ghedda- fi, la Jamahijria libica mette agli arresti domiciliari i due sospetti. Si rifiuta, tuttavia, di consegnarli sostenendo che un processo in Scozia «non sarebbe imparziale». Il 21 di gennaio del 1992 il Consiglio di Sicurezza dell'Onu «ordina» alla Libia di consegnare «a suoi funzionari qualificati» i due presunti terroristi. Biprende il solito vergognoso balletto, gravato da accuse e contraccuse, ricorsi all'Aia, furori nazionalistici e furori moralistici, infine invece delle manette ai due sospetti, scattano manette del tutto particolari ai polsi di un intero popolo, quello libico, a un paese chiamato, appunto, Jamahijria (repubblica delle masse). Quelle manette hanno un nome sini¬ stro: embargo. E cioè il blocco del trasporto aereo - civile e commerciale -, il blocco delle esportazioni verso la Libia. E' il 15 di aprile del 1992. L'anno successivo verrà il congelamento dei beni libici all'estero. Trascorrono due anni e la Lega Araba tenta una prima mediazione facendo propria una proposta di Gheddafi: un processo, ai due presunti colpevoli, da celebrarsi alla Corte di Giustizia dell'Aia. Solo dieci anni dopo la strage, nel luglio del 1998, Londra e Washington comunicano alla Lega Araba la loro disponibilità a un processo all'Aia ma con giudici scozzesi. Un mese più tardi Gheddafi risponde: non dice sì ma nemmeno no; il suo non è neppure un «ni» ma semplicemente un sì schiettamente arabo, anzi beduino. Il Colonnello vuole garanzie: accetta il processo all'Aia però ad alcune condizioni: in caso di condanna i due imputati non dovranno scontare la pena in Scozia bensì in Libia; il dibattimento dovrà svolgersi non già nella base aerea olandese di Soesterberg, ma «in un libero tribunale aperto democraticamente al pubblico». L'estate trascorre senza colpi di scena, vari paesi tentano mediazioni o compiono «sondaggi» del tutto velleitari; gesticolazioni di facciata si susseguono ad opera di personaggi minori in cerca di (vana) notorietà e così il 29 di ottobre scorso l'Onu proroga di quattro mesi ancora le sanzioni. Perché quattro mesi soltanto? Sono giunti da Gheddafi «segnali incoraggianti», grazie anche all'impegno (non pubblicizzato) di «paesi fuori della mischia», tra i quali il nostro. (Va qui detto, per la cosiddetta completezza di informazione, che nel mese di luglio c'è stato il disgelo fra Libia e Italia, grazie alla firma di un grosso accordo di cooperazione. Tanto grosso da figurare a mo' di pietra sopra un lunghissimo contenzioso che principia col mancato risarcimento agli italiani colpiti dalla «rivoluzione verde» e tocca il suo colmo coi due (sgangherati) missili contro Lampedusa, nel 1986. Ancora: il 22% delle importazioni libiche, quantificate in 8300 miliardi di lire, viene dall'Italia. Il 39% del petrolio (con derivati) libico va all'Italia. Ed ecco il 3 di questo dicembre, Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite annunciare un suo viaggio in Libia. Secondo le sue abitudini, Gheddafi ha fatto fare un bel po' di anticamera al paziente Annan, poi lo ha ricevuto nella sua tenda, quella vera, di Taurgia, nel deserto sinico. (E questo è un segno di considerazione, di rispetto). Gli ha offerto il rituale bicchiere di latte di cammella, e finalmente è cominciato l'interminabile colloquio. Il cui esito ha deluso gli americani, mentre il ministro degli Esteri inglese, Robin Cook, ha detto di essere «moderatamente ottimista». Imperturbabile, Kofi Annan ha dichiarato che le cose sono andate come si prevedeva e che per un risultato concreto «bisognerà attendere qualche tempo». E' comprensibile che l'uomo della strada americano, inglese, eccetera, sia rimasto deluso, non è confortante che dichiari di esserlo un portavoce del governo americano. Il quale, si presume, dovrebbe conoscere almeno per sommi capi: a) il personaggio Gheddafi; b) la situazione interna libica. Ora è vero che Gheddafi è Al Qaid, la guida suprema, l'uomo della decisione ultima, teoricamente irrevocabile ma è anche vero che in quel caos organizzato ch'è la Libia paramaoista (per di più insidiata psicologicamente oltre che militarmente da attrezzatissimi integralisti islamici) il Colonnello per decidere con tranquillità ha bisogno del concorso dei ringhiosi Comitati popolari, infinite volte disciolti e sempre risorti. Certamente potrebbe infischiarsene ma in questo caso dovrebbe mettere il suo animoso paese in stato d'assedio. Di più: la Libia si regge su di un fragile equilibrio tribale e si dà il caso che una delle due «jene puzzolenti», come (dicono) Gheddafi chiama i due sospetti, appartenga alla potente Kabyla Magraha. Viene in mente, al riguardo, la famosa casa di Swift «ch'era costruita secondo tutte le regole della statica, tanto perfettamente che non appena un passerotto vi si posava, immediatamente crollava». Ebbene, verrà il momento in cui Gheddafi se la sentirà di uccidere il passerotto. Verrà senz'altro ma il beduino dalle sette vite e dalle 700 uniformi non dimentica l'ammonimento di Maometto: «La lentezza è di Dio, la fretta del Diavolo». A rischiar previsioni sarebbe da stolti quando si sa che Gheddafi adora e pratica l'imprevedibilità. Si può soltanto immaginare che, quando nessuno potrà accusarlo di aver ceduto a una qualche pressione da parte di chicchessia, egli Al Qaid, il beduino bucolico ma terribile, schiafferà in galera i due presunti colpevoli della strage di Lockerbie: così, da un momento all'altro. Dopo, verosimilmente, tutto diventerà meno difficile e un giorno, non vicino ma neanche troppo lontano, gli innocenti del volo Pan Am 103 usciranno dal buco nero della morte ingiusta, che il 21 di dicembre dell'Anno del Signore 1988 si sostituì brutalmente a Santa Claus. Igor Man