Quella trincea che parte da Torino di Lorenzo Mondo

Quella trincea che parte da Torino PANEALPANE Quella trincea che parte da Torino LI italiani vivono nella paura? Ma sono diventati matti? In qualche resoconto e commento al rapporto del Censis sulla situazione sociale della nazione, si avverte una meraviglia appena dissimulata per il fatto che la sicurezza, insieme al lavoro, rappresenti il problema più assillante degli italiani. Il 61% non esce di sera, il 72% gira alla larga da uno sconosciuto, centinaia di migliaia di persone cambiano casa perché ritengono che il loro quartiere sia a rischio di microcriminalità... Un malessere che si spiega con le statistiche sui delitti e sulle pene, con la stessa esperienza quotidiana. Con la delittuosità endemica, militarmente organizzata, che da certe regioni distende la sua ombra sulla Penisola. Ma nel quadro generale, così turbato e fosco, Torino occupa una nicchia a parte. Perché qui l'ansia della popolazione sembra più profonda, più vigorosa la protesta, tanto da suscitare paradossalmente il rimbrotto degli osservatori esterni, e perfino degli amministratori locali. Vengono riesumati vecchi stereotipi sul moralismo acido dei subalpini, sull'inclinazione a un lamento non meno rancoroso perché introiettato, sulla mancanza di un salutare ottimismo, addirittura di una mediterranea gioia di vivere. In fondo, si obbietta, Torino rientra in una situazione diffusa, non diversa da quella di altre grandi città. E quasi si esprime allegria per questa corsa alla parità, quasi si rivendicano a sproposito gli effetti, ritenuti inevitabili, della globalizzazione. Come dire, anche noi siamo nel flusso della grande storia, ci attendiamo come tutti sinistre sorti progressive. Non vedete che l'Istat colloca il Piemonte al I quarto posto nella classifica I della paura, dopo Campania, Puglia e Lazio? Subito prima di Sicilia e Calabria? Prendiamone atto con santa pazienza. Non capisco se questo atteggiamento debba essere considerato incosciente piuttosto che iettatorio. Mi sembra che la protesta, il disagio delle persone non derivino da malvolere, da istinti repressivi o xenofobi, da uno stigma antropologico (questa sarebbe, davvero, una attribuzione razzista) ma semmai da una storia, da un costume diverso che i piemontesi non sono i soli a ricordare ancora e a custodire. Dice bene il vicesindaco di Torino che prendo alla lettera, voltando in positivo le sue parole: «La soglia di sopportazione qui è più bassa che altrove». Non viene in mente che altrove sono più indulgenti perché ci hanno fatto il callo? Dovrebbe essere considerata una risorsa, non solo per la città, ma per il Paese questa refrattarietà che ha avuto modo di manifestarsi anche ai gradini più umili della scala sociale (era ben Firpo a rammentare, con fierezza, che Torino non ha mai conosciuto plebe ma popolo; figuriamoci se può accettare il peggio a cuor leggero). Perché rassegnarsi a una omologazione verso il basso anziché proporsi, fermamente, di contrastare la china? Perché non offrirsi, come in altri momenti della storia, quale modello di società equilibrata e coesa? Arroccarsi, rubo in altro senso l'immagine del Censis, in una trincea morale e civile? Lorenzo Mondo ido

Persone citate: Firpo