Bradley, partita presidenziale

Bradley, partita presidenziale Tre anni fa lasciò il Senato denunciando: «Il sistema politico è marcio» Bradley, partita presidenziale L'ex cestista in corsa per la Casa Bianca PERSONAGGIO UN RIVALE PER GORE NEL &UEM1LA NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO Metti che Michael Jordan vada al tiro, completamente libero, in posizione favorevole. Vale la pena andare a rimbalzo/ considerando che le possibilità che il pallone ricada fuori dal carcere sono una su un milione? E' lì che riconosci il giocatore, l'uomo che crede negli spiragli del destino, nell'estrema fortuna e nella rimonta come metaforica esaltazione della speranza. Bill Bradley ci sarebbe andato, a rimbalzo. Infatti ci prova, contro Al Gore e il suo tiro facile, la sua nomination assicurata dai milioni di dollari disponibili per la campagna elettorale e dall'assist perfetto del giocatore più amato dal pubblico: Bill Clinton. Dalla poco evocativa terra del New Jersey l'ex campione di pallacanestro, ex medaglia olimpica, ex senatore, ex Amleto che sembrava avviato sui sentieri del potrei-ma-non-voglio vorrei-manon-posso, già infelicemente calpestati da Mario Cuomo, ha dato l'annuncio ufficiale: «Giocherò per la Casa Bianca». Alla sua maniera, però, con metafore cestistiche, allusioni esoteriche e manifestazioni di rispetto e gentilezze per l'avversario. Esordio: «Qui siamo al ritiro, prima che la stagione cominci, poi verranno le partite, ma è ora che si vedrà se la squadra c'è». La squadra, per ora, la fanno lui, il suo passato, la sua integrità, sua moglie Ernestine, sua figlia Teresa Ann, i 12 milioni di dollari che ha raccolto e dovrebbe raddoppiare nel prossimo anno e, per allenatore, la sua voce interiore, la stessa che nel 1988 gli disse: «Non sei pronto», nel '92: «Sei pronto, ma devi aspettare», nel '96 tacque e, forse per quello, lui dichiarò: «Il sistema politico è marcio» e se ne andò dal Senato, ricomparendo ora, a 55 anni, sulla strada per Washington, con la stessa apparente purezza di quando, affermato campione, rifiutava gli spot pubblicitari e la stessa tendenza a parlare come un santone al cloroformio: «Quello che voglio fare è andare là fuori e spiegare alla gente in che cosa credo». Che sarebbe poi un condensato di politica del buon senso, ravvivato, si fa per dire, da massime di Lao-Tzu, tipo: «Il dominio sugli altri è forza, quello su se stessi potere puro». L'unica cosa in cui Bill Bradley batte fin da ora Al Gore, per quanto l'impresa possa sembrare ardua, è il livello soporifero dei discorsi. Come già un'altra celebrità che si candidò senza successo per la nomination democratica, l'ex senatore volante John Glenn, anche Bradley riceve il massimo degli applausi quando viene presentato. Quando comincia a parlare, calano consensi e palpebre. Eppur si muove. Come gli ha insegnato il mitico allenatore John Wooden: «Sbagliare la preparazione significa prepararsi a sbagliare». Parte cauto e gentile, informa l'avversario Gore della decisione, quasi scusandosene, e scende in campo. Può farcela? Al momento avrebbe le stesse possibilità di stoppare Michael Jordan in elevazione, ma, com'è noto, la vita è lunga e fa molti giri e quel maestro che è Bill Clinton ha insegnato a tutti che a credere nnn si fa peccato. Nel '91 nessun democratico pensava possibile battere George Bush, re del Golfo, tranne uno, che diventò Presidente. Chiunque in America pensa che la partita del Duemila sarà Gore contro Bush Junior. Tranne, a quanto pare, Bill Bradley. Quello che non è chiaro, al momento, è perché gli elettori democratici dovrebbero preferirlo a Gore, dalo che non se ne differenzia. Le sue carte migliori sono: la fama, i 18 anni al Senato, il suo essere al di fuori della cricca politica di Washington (anche se non è certamente un Joe Ventura più alto), le sue attività per la riforma del sistema fiscale e i diritti civili («quando giochi a basket hai la certezza che un nero è come te, talvolta meglio»). Ma: a ricordarselo sul campo sono ormai soltanto i suoi coetanei di New York. Nell'ultima ele¬ zione per il Senato vinse per il rotto della cuffia, la sua estraneità al sistema lo priva degli appoggi necessari soprattutto alla partenza e il suo programma politico è ancora una nuvola. Scandali nel cassetto non dovrebbe averne: «Ernestine for ever», nel suo cuore e nei suoi ritagli di tempo. Ammise che il suo idolo era Wilt Chamberlain, il giocatore che confessò la media di una donna e mezzo al giorno dalla pubertà in avanti, ma si riferiva al campo, non a quel che accade fuori. E, sul campo, Bradley lo batté. Anno 1970: finale Los Angeles Lakers-New York Knicks. Avversari strafavoriti, anche per l'assenza di Willies Reed, infortunato. Ricorda Bradley nel suo ultimo libro, «Valori in gioco»; «E quando, senza preavviso, Willies apparve sul campo, fasciato, per il riscaldamento, la folla ruggì e noi capimmo che, a crederci, tutto era ancora possibile». Vinsero. E Bradley imparò «tramite il basket quanto sottile sia il confine fra vittoria e sconfitta e come ogni rimonta sia sempre possibile, che di rimonte è fatta la storia e della loro memoria si alimentano i racconti». Che uno così provi a rimontare su Al Gore, che non è poi Michael Jordan, va da sé. Non dovesse farcela ha già pronta la citazione New Age: «E' bello vincere, ma l'importante è migliorarsi». Non dovesse farcela, non correrà per la vicepresidenza in coppia con Gore. Come ha scritto il «New York Times»: «E' troppo alto per fare il vice di chiunque». E' la sua partita questa e deve giocarsela. La folla già sonnecchia, gli allibratori danno quote in doppia cifra, ma la voce interiore ha detto «vai» e tutti gli uomini che hanno giocato sanno che esistono sempre uno spiraglio e un momento per attraversare le difese e l'impossibile, arrivando dove nessuno ti aspettava. Gabriele Romagnoli Le sue carte: la fama, l'integrità, l'impegno per la riforma fiscale e per i diritti civili Rifiuterà comunque la vicepresidenza. Il New York Times: è troppo alto per fare il secondo Estero nato denunciando: Llpe Nella foto in alto Sandro Gamba che fu allenatore di Bradley nel Simmenthal Milano

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