Il Paese delle 333 amnistie e delle 687 riforme fallite

Il Paese delle 333 amnistie e delle 687 riforme fallite Il Paese delle 333 amnistie e delle 687 riforme fallite 1 CONTH COL PASSATO CI sono cose che si fanno senza raccontarle; altre di cui si può parlare ma che non si fanno mai. Quali? Dipende, per l'appunto: una disciplina certa non esiste. Ma a chi intenda reperirne una fattispecie a suo modo illuminante, basterà tendere l'orecchio alla continua ripresa di dibattiti e convegni sulla riforma delle istituzioni, e confrontarlo col silenzio, interrotto da improvvisi colpi di scena, che ha sempre circondato l'uso del potere di clemenza, la cancellazione dei reati e delle pene o per stare ai nostri giorni la soluzione politica per tangentopoli. Perché fra le due questioni c'è sicuramente un nesso, al di là delle vicende giudiziarie che riguardano il leader dell'opposizione, e che per i maligni stanno dietro le quinte d'ogni trattativa sulla modifica della Costituzione. Ma è un nesso esattamente rovesciato. Di riforme, in Italia, si parla e si straparla da vent'anni o trent'anni (nel 1969 il primo scambio pubblico di opinioni tra Ingrao e De Mita; nel 1979 Craxi propone la sua Grande Riforma). In questo tempo sono saltate gambe all'aria tre Bicamerali; c'è stata una girandola di ministri deputati alle riforme (per due volte Maccanico, e poi Martinazzoli, Elia, Speroni, Motzo, infine Amato); solo a contare i progetti di revisione costituzionale depositati in Parlamento fino al 1994 (c'è chi l'ha fatto), si tocca la ragguardevole cifra di 687 iniziative di riforma. E tuttavia nel suo mezzo secolo di vita la Carta costituzionale è stata emendata soltanto sette volte, e sempre su profili marginali e di dettaglio. Tutt'altro andazzo quanto alla remissione dei reati. La prima amnistia della nostra storia nazionale reca la stessa data dell'unificazione: il 17 marzo 1861. E durante i suoi primi 18 mesi d'esistenza, quelli in cui le madri provvedono a svezzare i propri figli, le amnistie e gli indulti concessi dal neonato regno furono in tutto 27. Allora, però, la clemen- za aveva un carattere tutto politico, si riferiva a delitti commessi in occasione e a causa della disputa politica. Come del resto vuole l'istituto, che i romani mutuarono dall'esperienza greca: ancora si ricorda l'amnistia decretata da Trasibulo dopo aver purgato la Grecia dai suoi trenta tiranni, o quella che propose in senato Cicerone per sedare gli effetti delle guerre tra Cesare ed Antonio. Poi, si sa, ci si fa prendere la mano. Specialmente noi italiani, che a forza di stare naso a naso con papi e cardinali, siamo diventati esperti in indulgenze terrene ed ultraterrene. Sicché l'Italia sperimento ben presto quanto sia dolce il perdono della legge, soprattutto quando cade sui reati comuni, quelli commessi dalla gente comune. Come il furto di legna, su cui il giovane Marx scrisse nel 1842 una pagina indignata, e che cinquant'anni dopo venne amnistiato dal nostro giovane regno. O come una quantità di altri reati talvolta insospettabili. La «coltivazione di tabacco nell'isola di Sicilia» (condonata nel 1867). Il mancato pagamento dell'imposta sul consumo di vino (nel 1921). Le infrazioni alla legge sulla requisizione dei quadrupedi (amnistie del 1890 e del 1891). Il taglio degli ulivi e l'abbattimento dei gelsi, nonché 1' «esportazione interprovinciale degli animali bovini» (nel 1920). O infine come il tormentone che ci ha perseguitati con ben sei provvedimenti di clemenza, dal 1871 al 1951: il matrimonio dei militari «contratto senza la prescritta superiore autorizzazione». Ma sì, diciamocelo: ci abbiamo fatto ormai la bocca. Quante amnistie ci sono state elargite in un secolo e mezzo di storia patria? 333, più di un paio l'anno. Alla faccia dei grilli parlanti come Jeremy Bentham, il filosofo inglese, che predicava di fare buone leggi invece di creare «una verga magica che abbia il potere di annientarle». Del resto persino il fascismo non lesinò affatto agli italiani il loro perdono quotidiano: in vent'anni gli indulti, le amnistie, le sospensioni della pena furono in tutto 51. Ed anche la nuova Repubblica è stata benedetta da un'amnistia generalizzata: quella firmata da Togliatti, il 22 giugno del 1946. Subito bissata non appena l'Assemblea Costituente concluse il suo lavoro, regalandoci una Costituzione fresca di stampa; almeno quella volta il vecchio (l'amnistia del 1948) e il nuovo (la Carta del 1948) viaggiarono appaiati. Poi, improvvisamente, la festa è finita. Dal 1992 in Italia non si celebra più una sola amnistia che sia una. Sarà che è venuta a mancare l'occasione, che non capitano più come una volta nozze e primogeniture d'altezze reali; d'altronde i nostri politici nascono a quanto pare già sposati, e per giunta coi figli grandicelli. Oppure sarà stato l'effetto di quella riforma caduta, quardacaso, giusto nel 1992, precedendo di poco la caduta della Prima Repubblica, e accompagnando l'ultimo provvedimento di clemenza. Fu introdotto allora un Quorum che lo stesso proponente ebbe a definire «inusitato», ossia i due terzi dei membri di ogni Camera per approvare nuove amnistie. Due terzi: la stessa maggioranza che occorre per mettere mano alla Costituzione, senza poi sottoporsi alla lotteria del referendum. Sicché tra riforme ed amnistie emerge un ulteriore punto di contatto. Perché allo stato i provvedimenti di clemenza hanno un passato ma non più, o non anche, un futuro, mentre le riforme stanno forse dentro il nostro oroscopo futuro, ma non hanno radici nel passato. Così prima di discutere ancora sulla soluzione politica, sempreché si voglia realizzarla davvero, è necessario partire da un punto fermo: se nel '92 è stata riformata l'amnistia, forse bisogna cominciare con l'amnistia di quella riforma. Michele Alnls Di riscrivere la Costituzione si discute dal '69: intanto sono saltate ben tre Bicamerali Il primo perdono lo stesso giorno dell'unificazione Anche Togliatti lo decise nel '46

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