La sua modernità sedusse Kierkegaard di Gianni Vattimo

La sua modernità sedusse Kierkegaard IL MITO DELL'ESTETA La sua modernità sedusse Kierkegaard TORINO. Si conclude oggi al Piccolo Regio il convegno «Senz'alcun ordine la danza sia: discorsi su Don Giovanni». Ieri sono intervenuti tra gli altri Paolo Gallarati e Umberto Curi. Oggi è la volta di Remo Bodei, Edoardo Sanguineti e Gianni Vattimo, che qui riassume il suo intervento. LA filosofia, secondo una definizione di Luigi Pareyson che oggi è largamente condivisa, è (anche, e forse solo) interpretazione del mito. Anche del mito di Don Giovanni, così costantemente presente in tutta la cultura moderna. Proprio Pareyson contribuì a far conoscere una delle riflessioni filosofiche più feconde e dense sul mito di Don Giovanni, quella di Sòren Kierkegaard, il pensatore danese che, a metà dell'Ottocento, anticipò l'esistenzialismo novecentesco. Il Don Giovanni dei filosofi, dopo di allora, è segnato dall'impronta della meditazione kierkegaardiana, peraltro dominata dal senso tragico del peccato. Non è certo strano che un pensatore religioso sia così ossessionato dal problema della seduzione e dalla figura di Don Giovanni, almeno se stiamo alla lettura tradizionale dell'opera di Mozart. Il fatto è che Kierkegaard non guarda al seduttore solo in termini morali o moralistici, come emblema del peccato da cui bisogna liberarsi per condurre una vita razionale. Kierkegaard dedica al fenomeno della seduzione, e specificamente al Don Giovanni mozartiano, analisi finissime che rivelano un interesse ben più che puramente negativo o semplicemente teso all'edificazione. La vita del seduttore, che come si sa rappresenta in lui il tipo dell'esteta (contrapposto a quello del marito fedele, che è l'emblema della vita etica; e a quello dell'uomo di fede, il cui tipo è l'Abramo biblico), è vista come il luogo nel quale si afferma l'irriducibile individualità umana. Il seduttore è l'esteta, ma l'esteta è colui che vive nell'immediatezza del desiderio e proprio per questo sfugge alle categorie generalizzanti dell'etica (in base alle quali il dovere impone di agire secondo una norma valida per tutti, dimenticando interessi e inclinazioni individuali). Questo Don Giovanni di Kierkegaard, ma forse già di Mozart, è specificamente moderno non perché richiama l'eterna presenza della passione d'amore e la potenza con cui essa si impone da sempre nella vita dell'uomo: ma perché è anche, come accade tanto spesso nella letteratura degli ultimi secoli (e forse sempre meno oggi) il luogo di una possibile e positiva fuga dal dominio della norma generale - quella per cui chi mette su famiglia non ha più tempo e modo di badare troppo a se stesso perché, appunto, ha assunto degli impegni storici che lo legano e spesso lo soffocano. E' per questo che ai lettori di Kierkegaard la figura del cavaliere della fede, Abramo che, in base a una chiamata personalissima di Dio deve disporsi a violare la legge morale universale sacrificando a Dio il figlio Isacco - non sembra poi tanto lontana da quella dell'esteta. Naturalmente, Abramo scommette, con successo, sull'origine divina della propria chiamata: mentre l'esteta è destinato alla noia e alla disperazione. I tratti negativi e tragici di tanta cultura «critica» contemporanea, per esempio il silenzio dell'avanguardia come lo teorizza Adorno, non sono forse nient'altro che un modo in cui si ripresenta lo scacco dell'esteta-seduttore di fronte alla razionalizzazione omologante della società moderna: dalla quale, direbbe Kierkegaard, solo un Dio ci può salvare Gianni Vattimo mo |

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