« E Saddam è ben in sella »

« E Saddam è ben in sella » L'EX SEGRETARIO DI STATO « E Saddam è ben in sella » Kissinger: sta vincendo lui la guerra LNEW YORK A terza crisi con l'Iraq nel giro di un anno è finita come tutte le altre. L'Iraq ha ripristinato le ispezioni e Washington ha fatto marcia indietro rispetto all'azione militare. Entrambi rivendicano la vittoria. E in un certo senso hanno ragione. Washington vince le battaglie, ma Saddam Hussein la guerra. L'impatto cumulativo delle varie crisi irachene è un arretramento strategico. Ogni crisi infatti ha rinforzato un modello di sviluppo del confronto nel quale Saddam controlla i tempi e i modi della prova di forza. A ogni crisi successiva, la politica americana diventa un po' più prigioniera del fragile consenso delle Nazioni Unite. Ogni crisi erode l'appoggio a Washington dei Paesi del Golfo e degli altri Stati arabi che, avendo visto l'America andare avanti e indietro per tre volte, saranno riluttanti a crederla pronta per un impegno continuativo. Il segretario di Stato Madeleine Albright ha spiegato che la politica degli Stati Uniti intende costringere Saddam a rimanere «nel suo buco». Ma, così stando le cose, quest'obiettivo non può essere raggiunto. La commissione speciale dell'Orni, cioè il gruppo degli ispettori, è uno strumento debole. Dopo anni delle più intrusive ispezioni della storia, non ò ancora in grado di dire se a Saddam restino o no armi di distinzione di massa. Del resto se l'Unscom lavorasse al meglio e fosse alla fine in grado di certificare che Saddam è disarmato, allora le sanzioni verrebbero «riviste», un eufemismo per dire che verrebbero tolte. E Saddam si troverebbe nella condizione di ricominciare ad armarsi. L'amministrazione Clinton non ha voluto rendersi conto che il problema non è l'Unscom, ma il potere di Saddam Hussein. Clinton ha mostrato di essere disponibile ad appoggiare una politica che miri ad abbattere Saddam, ma non ha presentato un piano per realizzarla. E' chiaro che il Presidente sembra non credere in una soluzione militare. La sua posizione riflette tre assunti: è verosimile che Saddam, nell'immediato futuro, resti al potere; la capacità militare americana di logorare l'abilità strategica dell'Iraq è meno efficace delle ispezioni; il regime di Saddam può sopravvivere alle rappresaglie americane. Una politica più decisa contro Saddam viene bloccata argomentando che l'America deve prendere la sua forza dalla cosiddetta comunità mondiale, che dovrebbe progettare i suoi interventi in risposta a specifiche provocazioni irachene e che, militarmente parlando, se non è in grado di raggiungere tutti gli obiettivi, è meglio che non faccia nulla. Tutte queste scuole di pensiero sono rappresentate all'interno dell'amministrazione. Ne risulta una grande confusione e ima preoccupazione crescente per l'opinione interna americana. La riluttanza a usare la forza erode progressivamente la credibilità. Ogni volta che Washington fallisce nel mantenere le sue minacce, è costretta a fare, la volta successiva, una minaccia più grave. Alla fine di questo circolo vizioso, non le rimarrà scegliere tra la rinuncia e un attacco massiccio che Saddam potrebbe far apparire ingiustificato. Una superpotenza la quale sostiene che, a meno di marciare su Baghdad, non è possibile indebolire Saddam in maniera decisiva, dimostra ben misere lungimiranza strategica, volontà politica e capacità militare. Gli Stati Uniti del resto dovrebbero guardarsi dall'illusione che un'operazione segreta indolore (per noi) consenta di evitare la complessità di un confronto militare. Io sono favorevole, in linea di principio, a un appoggio alla resistenza irachena ma, avendo esperienza di questo genere di iniziative, suggerirei tre cautele: l'operazione andreb¬ be condotta da professionisti, non da avventurieri; dovrebbe tener conto degli interessi dei Paesi vicini, soprattutto Turchia, Arabia Saudita, Giordania e Iran; dovrebbe infine mettere in bilancio un appoggio concreto, se necessario diretto, del movimento di resistenza che dovesse trovarsi in difficoltà. In caso contrario si rischierebbe di ripetere la débàcle della Baia dei Porci e del Nord dell'Iraq nel '75 e nel '96, quando la maggior parte degli uomini appoggiati dall'America finirono eliminati o esiliati. La situazione consiglia i seguenti criteri: L'obiettivo finale nel Golfo non sono i risultati delle ispezioni, ma il governo stesso di Baghdad. La prossima provocazione di Saddam dev'essere considerata non dal punto di vista della singola offesa, ma come prova della necessità del procedere in una più ampia strategia americana. La risposta militare dovrebbe portare alla distruzione del comando di Saddam e al controllo dei luoghi, della localizzazione sospetta delle armi di distruzione di massa e della Guardia repubblicana. Nel complesso, considero questa un'opzione migliore del fare affidamento sulla resistenza interna. Se Washington è determinata nell'appoggiare la resistenza irachena, dovrebbe cominciare a equipaggiarla e addestrarla, a organizzare la sua struttura di comando ed essere pronta a proteggerla con le forze americane. Come parte di uno sforzo serio per abbattere Saddam, dovrebbero essere poste delle limitazioni alla ca¬ pacità irachena di condurre significative operazioni militari, sia all'internò delle due zone no-fly, sia contro uno qualunque dei suoi vicini, impedendo i movimenti delle unità irachene al di là di una certa zona. Alla popolazione irachena dev'essere fatto capire che il principale ostacolo alla normalizzazione è Saddam e la sua cerchia più ristretta e che lei è l'alleata, non il bersaglio dell'America. Se Washington non è disposta a fare appello alla coerenza e alla determinazione richieste da una strada di questo genere, l'attuale politica fallirà, minando la stabilità del Golfo e dell'intera regione. Henry Kissinger Copyright «Los Angeles» «Times Syndicate» e «La Stampa» «L'ultima crisi è finita come le altre: Clinton ha rinunciato ai raid» «Diciamo di voler abbattere il Raiss ma non abbiamo un piano preciso per farlo» Un ufficiale iracheno indica su una mappa le zone in cui Usa e Inghilterra avrebbero usato proiettili all'uranio causando «danni irreparabili» alla gente

Persone citate: Clinton, Henry Kissinger, Kissinger, Madeleine Albright, Saddam Hussein