In fiamme un pezzo d'Italia in Albania di Vincenzo Tessandori

In fiamme un pezzo d'Italia in Albania Lo stabilimento dell'imprenditrice Cristina Busi, aperto nel '93, dava lavoro a più di 500 persone In fiamme un pezzo d'Italia in Albania Distrutta la fabbrica della Coca-Cola, forse un incendio doloso TIRANA. Il grande rogo della fabbrica della Coca-Cola, alle porte di Tirana, non è ancora spento e forse ci vorranno quattro, magari cinque giorni per averne ragione. Ed è un po' come se nel fumo acre che sale verso il cielo grigio e piovigginoso fosse finito il sogno di un benessere appena sfiorato, l'illusione de Lamerica. Lo stabilimento, inaugurato nel '93, sorge a 5 chilometri dalla capitale, sull'unica superstrada del Paese, in direzione del mare. E pare un segno brutto della sorte, questo incendio, quasi un salto all'indietro, perché proprio la Coca-Cola, di cui è titolare Cristina Busi, era uscita indenne, o quasi, dalla sommossa che, nella primavera del '97, aveva messo a ferro e fuoco più o meno tutta l'Albania: difesa da qualche operaio e da numerosi mercenari armati di Kalashnikov ma anche di mitragliatrici pesanti, appostati dietro le dighe di sacchetti di sabbia nel cortile o sul tetto. Ora che le fiamme hanno inghiot¬ tito bottiglie, pasta basica per i contenitori in plastica e alcuni macchinari, devastato gli uffici, lasciato segni e ferite un po' dappertutto, Cristina Busi parla di «una scena apocalittica. Qui è quasi tutto distrutto. Ho il fumo nei polmoni. Ma non ci fermeremo e riprenderemo presto la nostra attività». Dunque, una dichiarazione d'intenti, quasi fosse destinata a qualcuno che ha tentato di cancellare il lavoro di questa imprenditrice le cui attività non si limitano alla fabbrica di Tirana nata dalla collaborazione con americani e governo albanese ma è responsabile di altri stabilimenti di Coca, in Italia, ed è consigliere del gruppo L'Espresso e azionista del gruppo Monti. Il fatto è che nessuno, finora, ha potuto escludere il dolo e di certo l'incendio, scoppiato intorno alle 2 dell'altra notte, e alimentato pure da un vento tenace, è apparso subito così violento da dover fare intervenire oltre alle squadre dei pompieri di Tirana, quelle di Kavaja, Kruja e Durazzo. Quella della Coca-Cola non è una fabbrica qualunque. «E' il più bel gioiello dell'Albania», assicura Cristina Busi che snocciola le cifre: vi lavorano 540 persone, con stipendi da 200 dollari al mese e produce 80 milioni di bottiglie, destinate al mercato interno. Detto tutto questo, anche se si parla di possibile corto circuito o di altre cause accidenali, quel sospetto che qualcuno abbia appiccato il fuoco si fa più forte. «E se così fosse sarebbe l'ennesima perdita di credibilità, un insulto al Paese». D'altra parte, poco più di un mese fa, quando si sfiorò il colpo di Stato in seguito all'assassinio di Azem Hajradi, il deputato del Partito democratico braccio destro armato di Sali Berisha, gli ex proprietari del terreno dove sorge la fabbrica entrarono nello stabilimento e il loro non fu un passaggio indolore. «Il governo, anzi i governi, questi vecchi padroni non li hanno mai pagati: li hanno messi nella joint-venture ma quelli non hanno visto un soldo. E' logico che se la prendano con noi». E la combattiva imprenditrice dichiara a muso duro che ora tocca al governo socialista «darci delle garanzie, a me e a tutti gli imprenditori italiani presenti sul territorio, che queste cose non devono più accadere. Dobbiamo essere tutelati. Noi imprenditori dobbiamo essere tutelati anche dall'Italia. A noi del gruppo della Coca-Cola, in Italia e negli altri Paesi queste cose non sono mai successe. Perché in Albania?». Certo, qui la voce del Kalashnikov è ancora la più ascoltata, ma questo, fino a prova contraria, è un altro discorso perché niente, finora, è provato. Sia come sia, osserva Cristina Busi, «il fuoco è circoscritto, ma per il completo spegnimento ci mancano schiuma e sabbia e proprio di sabbia ne occorre moltissima perché il focolaio alimentato dalla plastica delle bottiglie è molto esteso». Un bilancio dei danni? «Difficile una stima esatta, ma quelli economici si riparano, sono quelli morali che ci fanno più male», proclama Cristina Busi. E un impiegato ha aggiunto che «non c'era acqua per spegnere il fuoco perché abbiamo disattivato il sistema elettrico, gli estintori erano esauriti, e i vigili ci hanno messo un sacco di tempo per arrivare». Ma forse è davvero troppo trovare il colpevole nei pompieri. C'è un'inchiesta, ci sono delle indagini: sul loro esito esperienze passate suggerirebbero diffidenza, ma non si sa mai. Vincenzo Tessandori La fabbrica della Coca-Cola a Tirana

Persone citate: Cristina Busi, Sali Berisha