Storie di Città

Storie di Città Storie di Città A anni faccio un sogno ricorrente, o meglio un incubo. Resto chiuso e intrappolato in un edificio mentre tutti gli altri se ne vanno e mi lasciano solo, dimenticandosi della mia esistenza. Talvolta capita che sia piacevole, come quando ho sognato di rimanere chiuso nella notte tra sabato e domenica dentro il Salone del Gusto, al Lingotto di Torino. Adesso che ci penso quello non era un sogno vero e proprio, è stato un tentativo fallito di farmi chiudere dentro; dalle 23 del sabato alle 11 della domenica avrei avuto dodici ore tutte per me, per assaggiare tutto, sistematicamente. Come un naufrago. Prelevando piccole dosi da ogni stand non si sarebbero accorti di niente e, nel caso, c'era pronta la scusa dell'angoscia per giustificare la voracità. Invece un guardiano notturno m'ha scovato e mi ha accompagnato a un'uscita d'emergenza. Per giustificarmi ho fatto finta di essermi perso. E' stato gentile e premuroso; ho sentito che diceva a un collega, commentando il fatto: «A una certa età non dovrebbero lasciarli andare in giro da soli». Una volta che ero rimasto chiuso nella toilette della Biblioteca Civica di Saluzzo mentre stavano chiudendo per la pausa di mezzogiorno, il terrore di dover saltare il pranzo mi ha centuplicato le forze e ho sradicato la porta del bagno dai cardini, però poi l'ho appoggiata delicamente sulla scrivania del direttore. Non hanno mai scoperto chi fosse stato; il giornale locale diede la notizia intitolandola: «Godzilla in biblioteca?». A vent'anni lavoravo in un laboratorio foto-litografico che si trovava in un palazzo di corso Dante, a pianoterra; al suo posto ora c'è un negozio di tappeti e al primo piano la scuola Holden. Una sera mi sono dovuto fermare da solo fino a mezzanotte per finire un lavoro urgente. Quando vado per uscire mi accorgo con terrore che l'ultimo collega che era andato via prima di me aveva chiuso la porta dall'esterno con doppia mandata ignorando che in una camera oscura c'ero ancora io; il telefono, per chiedere soccorso, era nell'ufficio chiuso a chiave. Mentre vago per il laboratorio in preda all'angoscia alla ricerca di un'uscita di emergenza, sento che qualcuno da fuori sta bisbigliando a bassa voce; mi avvicino e sento il pigolio di due fidanzati che si scambiavano tenerezze stando sul davanzale della vetrina e appoggiando la schiena alla serranda. Era la salvezza: di colpo ho iniziato a battere pugni forsennati contro la serranda e a urlare: «Aiuto! Liberatemi!». Sono scappati come lepri! Magari si sono poi sposati e sono quarant'anni che si rimproverano a vicenda di aver abbandonato un uomo in pericolo. Se in questo momento mi leggete, state tranquilli, sono an- cora qui. Mi ha poi liberato, dopo due ore di panico, la vigilanza notturna. Ora mi ritorna l'incubo perché ho incautamente visitato al San Giovanni Vecchio di via Giolitti la mostra Arca Naturae dove sono esposte le fotografie che Dario Lanzardo, con la consueta maestria, ha fatto delle collezioni «invisibili» del Museo Regionale di Scienze Naturali. Lì ci sono 400 primati, 30 mila fra rettili, anfibi e pesci, 20 mila uccelli e 2 milioni e mezzo di insetti per infilare i quali sono stati necessari altrettanti spilli. Dopo cinquant'anni di abbandono, dal 1980 li stanno spolverando e non hanno ancora finito. Come spiega Piermauro Giachino nell'accurato catalogo, gli animali collezionati e conservati a secco hanno un mucchio di nemici: esiste un coleottero che è stato battezzato Anthrenus museoium, cioè, dico io, il Nero dei Musei, per la sua propensione a divorare ogni tipo di reperto, purché sia conservato in un museo; mentre gli Psocidi rosicchiano oltre che gli animali la carta, le colle e le vernici, così spariscono anche i cartellini! Stanno meglio gli esemplari conservati immersi in un liquido dentro le Burnìe, nome scientifico «albarelle», di vetro. Pensate che ancora adesso i reperti raccolti dalle spedizioni in Madagascar, per l'impossibilità di trovare sul luogo un altro liquido conservante, vengono messi dentro il rum. Ecco perché quando devono assumere un guardiano i responsabili del museo pretendono che sia astemio. Le fotografie di Dario Lanzardo sono emozionanti perché ci introducono in un altrove misterioso. Gli sguardi vitrei e fissi per l'eternità di queste aquile, gufi, allocchi, civette, volpi, scimmie che ci vengono incontro in file serrate sembrano chiederci ragione del nostro accanimento nel volerli uccidere per fissarli in un'eternità polverosa e traballante. C'è un coccodrillo avvolto nella plastica posato in cima a un armadio, cortei di scheletri di scimmie avvolti in un sudario di plastica trasparente tali da sembrare extraterrestri. Così io sogno di rimanere chiuso di notte nel museo, di vagare per le grandi crociere dove un tempo c'erano i letti degli ammalati, di incontrare un consesso di animali tassidermisti che, per un elementare principio di reciprocità, vogliono imbalsamare un esemplare umano. Seguendo i più moderni criteri dell'ostensione museale vogliono eternarmi in una posa etologica, ovvero mentre compio un gesto per me abituale e caratteristico; dopo una lunga e fruttuosa discussione decidiamo che sarò imbalsamato seduto al tavolo di un ristorante mentre il cameriere solleva i coperchi del carrello del bollito misto e io col dito puntato indico i pezzi e le salse che deve mettermi nel piatto.

Persone citate: Dario Lanzardo, Piermauro Giachino

Luoghi citati: Madagascar, Saluzzo, Torino