GIUSEPPE GABANNA

GIUSEPPE GABANNA GIUSEPPE GABANNA Igeniali scafandri da palombaro di un artigiano di via Frejus CHE effetto fa scoprire di avere avuto un bisnonno geniale, lavoratore modesto e coscienzioso nella Torino di inizio secolo, la cui opera, a distanza di anni, è apprezzata ancora oggi dagli esperti del settore?», si domanda la giovane Barbara Cesari, torinese. «E' ciò che ho scoperto solo pochi mesi fa, quando una parte della vita dei miei bisavoli è diventata improvvisamente interessante per persone che non avevo mai conosciuto prima, ma con cui ho scoperto di avere qualcosa in comune: il mio bisnonno. Tale esperienza mi ha permesso anche di scoprire ima Torino antica, sofferente durante le due guerre eppure vitale, che affrontò le sue traversie con discrezione e fierezza tutte piemontesi. Tutto trae origine da alcuni scafandri per immersioni e da alcune torrette di profondità che il mio bisnonno Giuseppe Gabanna, titolare di un'azienda per costruzioni in rame, (ultima sede in via Frejus 44, bombardata nell'ultima guerra), progettò, realizzò e sperimentò per la Reale Marina Itahana, fra il 1922 e l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, circa. Una delle fighe di quest'uomo. Eliana Gabanna è la mia nonna, ora ottantenne assai in forma. Mi aveva sempre raccontato i suoi ricordi su quegli scafandri, giacenti nell'officina adiacente la sua casa di allora, che suscitavano timore tra i bambini e che venivano comunemente chiamati «i mostri». Ora invece scopriamo che quei prototipi in rame e cuoio erano frutto della progettazione geniale di un uomo, il bisnonno, che con il mare non aveva mai avuto a che fare - essendo la famiglia originaria della montagna del Canavese - ma che era capace di progettare qualunque cosa gli si richiedesse. Abituato a produrre impianti di distillazione per liquori, di riscaldamento, alambicchi, caldaie ed altro (fra i clienti della ditta c'erano la Martini & Rossi e la Cinzano), Giuseppe Gabanna non si tirò indietro quando gli fu proposta la progettazione di attrezzatura marina, e vi lavorò sopra per anni, mettendo a punto modelli di caschi, torrette e scafandri, che rappresentavano una scommessa in cui si metteva in gioco la reputazione di un'azienda fondata nell'Ottocento. Nel far ciò egli fu spinto, oltre che dalla passione per il suo lavoro, anche dal suo senso patriottico, lo stesso per il quale, svolgendo lavori per il governo già durante la Grand Guerra aveva perso un occhio. Ancora una volta l'impegno suo e degli altri fratelli Gabanna fu premiato, e dopo numerosi tentativi, collaudi in mare aperto, esperimenti (grazie anche alle richieste del Comandante della Marina Cuniberti, appassionato di immersioni e rampollo di una famiglia di banchieri torinesi, morto durante un'immersione in piscina), i progetti di Giuseppe Gabanna ebbero successo. E si concretizzarono in una serie di prodotti all'avanguardia per l'epoca, che a detta di alcuni esperti solo quattro o cinque industrie specializzate in attrezzature marine, sarebbero state in grado di produrre. Ma mai nessuno le produsse con quegli accorgimenti che rendono unici i pezzi delle industrie Gabanna. Nel maggio scorso, infatti, abbiamo avuto la sorpresa di ricevere una lettera da un paese vicino a Orléans, indirizzata alla nonna; il suo autore, collezionista di attrezzature antiche per immersioni, raccon- tava di aver trovato il «casco Gabanna» in un mercatino francese, e di essere rimasto folgorato dalla originalità della fattura, e dalle particolarità tecniche che lo rendono davvero unico. Con questa lettera ho scoperto un mondo di collezionisti, sparsi un po' dovunque, la cui conoscenza in materia è paragonabile sol- tanto alla passione con cui coltivano questo hobby. La peculiarità del casco è tale, afferma il collezionista, da avergli fatto cercare per un anno intero tracce dell'industria Gabanna, i cui estremi erano incisi sul reperto, e avergli fatto decidere di voler mettere insieme addirittura un piccolo libro, su un caso di ar¬ cheologia industriale più unico che raro. Ho soprattutto scoperto una parte della storia della mia famiglia, una dignità del lavoro come forse ora non esiste più in questa città... L'intrecciarsi delle emozioni private, legate agli affetti familiari, soprattutto nel racconto della nonna, con le considerazioni storiche sulle vicende delle due guerre, che ho studiato approfonditamente in quanto laureata in Storia, mi ha fatto riflettere sull'indissolubile legame fra la storia della «gente» comune e quella delle istituzioni. E così, mentre frugavo fra le foto di famiglia per trovare documenti che interessassero il simpatico collezionista proprietario del «casco Gabanna», ho scoperto le tracce della distruzione della fabbrica a causa della guerra. I miei avevano dedicato tutta l'esistenza a realizzare un sogno, a tentare di superare i propri limiti, anche per un sentimento patriottico, nell'accezione più apolitica del termine (il nonno non volle mai iscriversi al partito fascista, e solo quando non riuscì più ad ottenere lavoro i suoi fratelli, contitolari dell'azienda, ebbero il permesso da lui di iscriversi, poiché la necessità vinse la sua profonda riluttanza). Durante le vacanze, a Nizza, ho potuto incontrare personalmente il proprietario francese del casco, ho tenuto fra le mani un oggetto che appartiene idealmente, e sempre apparterrà, alla mia famiglia, e ho appreso tutti i dettagli tecnici che lo rendono così speciale. Soprattutto me ne sono stati magnificati i vantaggi pratici rispetto al famoso casco classico alla francese (vedi foto allegate), che è poi quello che vediamo comunemente rappresentato, di forma sferica e con le aperture rotonde tipo oblò. Questi collezionisti ne parlano con entusiasmo quasi infantile, non riescono a capacitarsi della fortuna che hanno avuto ad incontrare noi, gli eredi in carne ed ossa del «Genie», quel modesto artigianoindustriale, che senza l'aiuto di libri o di esperienza progettò una cosa unica e innovativa, seppur in un settore così stravagante per quel periodo. Cercare di ricostruire i passaggi storici, le vie attraverso cui un casco da palombaro sia potuto giungere, in quasi ottant'anni, in un fienile vicino a Orléans, significa restituire al mio bisnonno e al suo lavoro la meritata dignità e il giusto riconoscimento che gli spettano, farlo riaffiorare anche solo temporaneamente dall'oblio storico in cui oggetti del genere vengono gettati dalla scontatezza della padronanza tecnica di oggi. Tornare a far immergere il «casco Gabanna» significa rendergli una parte dell'umanità e della passione quotidiane con cui fu ideato, e realizzato da Giuseppe Gabanna, in una semplice officina di via Massena 70 (prima sede), dove, nello stesso cortile, giocavano i suoi bambini, incuriositi da quel «mostro» che per anni avevano visto sulla cuccia del cane. Per questo motivo, se qualcuno dei lettori avesse informazioni sull'azienda, o sulle persone (soprattutto gli operai) che possono aver lavorato a tale progetto, è pregato di contattare la mia famiglia, al numero 011/318.12.07. Nella foto in alto la mamma di Giuseppe Gabanna e la figlia (a destra), e il primo scafandro nel cortile di via Massena. Nelle foto a colori il casco Gabanna, e sotto l'ultimo modello presentato alle autorità negli anni Trenta.

Luoghi citati: Nizza, Torino