La satira di Orwell, il Jonathan Swift del Novecento di Claudio Gorlier

La satira di Orwell, il Jonathan Swift del Novecento La satira di Orwell, il Jonathan Swift del Novecento taccato l'antisemitismo. Ecco perché qualcuno ha sollevato il dubbio, a mio parere ozioso, se Orwell, ove non fosse morto nel 1950, sarebbe divenuto un simpatizzante maccartista, considerando che negli Stati Uniti una corrente revisionista sta tentando di riabilitare il funesto senatore. Piuttosto, conviene ridiscutere le tormentose ambiguità politiche di chi, dopo la militanza socialista intransigente, la critica ai mali delle democrazie capitalistiche non professò un coerente antistalinismo e acquisì un appassionato patriottismo, ma subì il fascino perverso di figure cruciali del totalitarismo. In una recensione del Mein Kampfài Hitler, apparsa nel '40 e già ristampata nel secondo volume di The Collected Essays, Journalism and Letters ofGeorge Orwell, del '68, si legge: «Non sono mai stato capace di provare avversione per Hitler... Lo ucciderei sicuramente se mi venisse a tiro, ma non posso sentire per lui alcuna animosità». Quando suggerii di inserire questo brano in una antologia orwelhana pubblicata dalla George Orwell Rizzoli, la vedova, Sonia, che con il nuovo marito Ian Angus aveva curato l'opera, sollevò serie obiezioni. Quello che conta, comunque, è lo scrittore, lo Swift del nostro secolo (Swift rimase sempre un suo modello privilegiato), e stupisce che Ash lamenti l'inclusione nelle opere complete di La figlia del reverendo e di Fiorirà l'aspidistra alla cui ripubblicazione Orwell si era opposto. Mai dar retta a uno scrittore in casi del genere: che dire, altrimenti, di Gogol o di Kafka? Orwell, in realtà, attende tuttora una organica, approfondita rivalutazione critica. Omaggio alla Catalogna e La strada per Wigan Pier, per restare a due dei primi testi del suo canone, introducono un autore di insolita statura. La fattoria degli animali, che ormai andrebbe letta depurandola della sua dimensione di pamphlet, sanziona uno scrittore di prima grandezza, forse più per le sue invenzioni situazionali e linguistiche, per la sua folgorante capacità di ricreare la favola, la satira, che per le sue asprezze polemiche. 1984 rivendica un posto unico nel suo genere ancora oggi, e non si esagera definendolo uno dei capolavori assoluti del secolo. Ma anche qui bisogna dissipare tutta una serie di equivoci, evitare di porre l'accento sulla denuncia schiettamente politica, per rendersi conto che l'intuizione cen- trale del libro (stento a definirlo semplicemente romanzo, poiché trascende i generi letterari) sta nella rappresentazione dell'ipnosi mediatica divenuta essa stessa potere, persino più che strumento di potere. Tutto questo si risolve ancora una volta, al limite estremo, nella invenzione verbale, nel gioco aspro, ironico e drammatico, sulla mistificazione incarnata nella parola, nel limbo allucinato, come ha scritto finemente un critico, nel quale la coscienza e la conoscenza vengono costrette a sopravvivere, condannate, distorte. Siamo tutti nelle mani di un Grande Fratello, dalla Fattoria degli animali a 1984. Orwell fu, inoltre, un grande saggista e un grande giornalista. Nessuno, forse, ha scavato più in profondità nell'opera di Dickens; Dentro la balena e Uccidere un elefante («Capii in questo momento che quando il bianco diviene tiranno è la sua libertà che distrugge»), con la scoperta dell'individuo usato come «una marionetta assurda» portano nella saggistica lampi abbaglianti. Ecco, per tutti questi e altri motivi i venti poderosi volumi delle opere complete rendono a Orwell, a ben rifletterci, un cattivo servizio. Lo annegano, lo livellano spesso nella banalità quotidiana, confinandolo qua e là nel retrobottega della cultura e della storia. Claudio Gorlier George Orwell

Luoghi citati: Catalogna, Stati Uniti