SARNO la frana dell'Ulivo di Lucia Annunziata

SARNO la frana dell'Ulivo Camorra, abusivismo, inefficienza dei soccorsi: cronaca della catastrofe in un libro-denuncia di Lucia Annunziata SARNO la frana dell'Ulivo l~] tornata la cronaca: ecco un / libro tremendo (finalmente). Così tremendo che nelle prime pagine, quando il piccolo Roberto torna a casa per cambiarsi e subito capisci che sta per morire di fango schiacciato dentro un armadio, vorresti che fosse tutto già finito, e al più presto spegnere quella sottile nausea, allentare la morsa che sta stringendo il cuore. E invece è solo l'inizio, è solo la prima delle 14 ondate che il 5 maggio, in un'Italia proprio in quei giorni resa euforica dal traguardo europeo, seppelliscono Episcopio e poi cancellano Sarno. Roberto, il bambino dell'armadio, è solo la prima vittima. L'aria umida, all'imbrunire, un altro boato improvviso, l'odore della terra bagnata, «seenne a muntagna», la frana, la madre è in strada, il padre in casa, dormiva, si sveglia, prova ad aprire la camera dei figli, delle ragazze, non ci riesce, si affaccia per le scale, vede il fango che si alza lentamente, già quasi al soffitto, le poltrone del salotto che galleggiano. «E un'altra serie di persone, in quel momento ancora ignare di tutto, sta per incontrare il proprio destino». Così, persona dopo persona, cadavere dopo cadavere, Lucia Annunziata racconta la catastrofe e il dolore della comunità di Sarno ne La Crepa, che Rizzoli sta per mandare in libreria. Sono tante storie intrecciate fra loro, gente strappata al tran tran e di colpo messa a rischio da un mare di melma assassina, anime perse in un disastro di cui tutti stentano a comprendere le dimensioni reali. Una tragedia che il governo dell'Ulivo, lì per lì - cioè quando serve - si rifiuta di riconoscere. Per cui «la crepa», sul piano della storia di questi anni, è anche quella di una politica che resta «immobile e silenziosa». E' l'incrinatura di un nuovo potere di sinistra che sceglie di «non disturbare», di restarsene a Roma, e in ogni caso non sa organizzare i soccorsi, così abbandonando al caos gli uomini e le donne di Sarno. Ecco il parroco, dunque, e il capitano della Finanza, l'infermiera, l'operaia della fabbrica in nero, la giornalista della tv locale, il commissario, l'impresario edile. Ecco il medico e sua moglie, colti nel pieno di un'appassionata crisi coniugale, 0 il ragazzo che quel pomeriggio stava andando a giocare a calcetto e che ritroverà la borsa con gli scarpini dopo due settimane, in un bar. Ecco il sindaco, Gerardo Basile, che dopo tre giorni «è uno straccio. Il cappotto gli pende dai lati, i capelli scomposti, un'espressione vuota, assediato da telefonia, giornalisti, parenti; assalito, insultato, difeso, portato via spesso dall'intervento energico di un paio di vigili». Piange. La frana: quella massa oscura che corre nel buio, la colata profonda che rincorre la massa uma¬ na, assedia il Duomo, sommerge l'ospedale dove la gente è andata incautamente a rifugiarsi, penetra e distrugge tutto quello che si trova davanti. La luce che va e viene, per strada l'alone dei fari e i telefonini impazziti. Il panico, la fuga. Sprofondano intanto le pale meccaniche, s'accartocciano i muri, le donne incinte scappano in pantofole, i padri spingono le 127, i bambini succhiano latte e vomitano fango nero. Ben tornata, la cronaca. La più vera e spietata, quella che non si leggeva da tempo: «Gaetano lo abbiamo trovato la domenica, alle tre di notte. L'hanno riconosciuto dai baffi... si vedeva solo il bianco degli occhi, e mi hanno detto che l'hanno trovato spezzato in tre parti». Una vecchia la sollevano dal tetto con l'elicottero. Sembra di stare lì: «Il vestito tutto tirato su a rivelare le vecchie gambe coperte dai calzettoni. Un uomo urla dai balconi». Per una volta la parola, questa specie di inconsapevole Spoon rìver, vola all'altezza delle suggestioni dell'immagine. Solo un libro, in fondo, poteva fissare nella memoria il dramma di un paese soppresso dalla vendetta di una montagna violata dall'abusivismo e dalle inadempienze croniche di quelle amministrazioni infestate dalla camorra. Testimonianze in presa diretta, ora dopo ora, alternate con i freddi dispacci della prefettura. Un montaggio straordinario, di ritmo e intensità cinematografici. E tuttavia «vissuto» prima ancora che pensato, confezionato o perfezionato da espedienti e accorgimenti di scrittura. Si capisce: l'Annunziata è di Sarno, nei giorni del dramma l'ex direttrice del Tg3 si precipitò giù con le telecamere; conosce la zona, la gente, più degli altri «sente» l'evento, prima degli altri ne percepisce la gravità: è il suo, perciò, anche un atto d'amore e di consolazione. Ma l'effetto che si prova nel leggere alcuni brani de La Crepa è di un tale coinvolgimento emotivo da richiamare - l'analogia è certo impegnativa, per quanto consapevole - una delle più strazianti pagine della letteratura giornalistica del dopoguerra, il servizio di Dino Bu zzati sulla tragedia dei 43 bambini annegati ad Albenga. Lì c'era una madre che «nella camera ardente non vedeva il suo figlioletto morto: ma lo vedeva morto quarantatre volte nello stesso istante, quarantré volte nello stesso istante strappato via dalle sue viscere. I suoi sguardi ùnpazziti cominciavano poi ad ondeggiare qua e là cercando. Poi il sangue chiamava e lei si gettava sul misero bimbo di cera, ormai così lontano, baciandolo e accarezzandolo con atroce tenerezza e mettendogli a posto la vestina...». Anche qui ci sono madri e terribili riconoscimenti: «Per me è stata una soddisfazione averlo da lavare. Quando lo hanno trovato mi hanno fatto stare lì dentro con lui per un po'. Io per lo meno mio figlio l'ho pulito. Quando sono stata poi a riconoscere il suo corpo insieme a tutti nel palazzetto dello sport, lui era l'unico pulito e lavato, così che un signore gli ha anche portato un fiore...». Mollare la Rai, i suoi equilibri deformati, i suoi protagonismi esasperati, la nevrosi dell'audience deve aver fatto molto bene a Lucia Annunziata. Forse le ha addirittura restituito il senso più autentico della cronaca, l'essenzialità di una scrittura che non ha bisogno di aggettivi, né di punti esclamativi, né di similitudini o citazioni dotte dall'Apocalisse. Bastano, come si dice, i fatti. L'arrivo ritardato dei politici, ad esempio. Il sottosegretario Barberi, esperto in catastrofi, non può fare a meno di confrontare il disastro e l'inefficienza di Sarno al terremoto di qualche tempo prima: «In Umbria la prima sera avevamo 13 mila persone alloggiate con pasti caldi serviti». Mentre qui la gente continua a crepare sotto il fango, mancano tende e medici specializzati, nessuno è in grado di censire nulla. Mancino e Maccanico, sgomenti, sorvolano le rovine con un enonne elicottero bianco: «La montagna era scoppiata... s'erano formate come delle grandi piste di sci. Solo che erano lava»; D'Alema pressato dai compagni al mercato ortofrutticolo, «ha la sua aria indisponente di sempre, ma le sue labbra sono così tirate che intorno gli si è formato un alone bianco». E' lui a chiamare allarmatissimo a Roma, a dare il senso del disastro. Scalfaro e Prodi ai funerali, «dietro una rete, senza nessun contatto con la folla». Alla fine si piangono 134 morti e 39 dispersi. Le responsabilità affondano nella storia del Mezzogiorno, nei dissesti idrogeologici, nello sviluppo «in nero», nella sottovalutazione della tragedia. Il fango e il dolore, però, sono più violenti di qualsiasi spiegazione. Restano impressi nella memoria come «le urla dei sopravvissuti che gridavano nel vuoto di un luogo che, per quello che a quel punto capivano, poteva essere stato inghiottito». Filippo Ceccarelli Sei mesi fa la tragedia con 134 morti e 39 dispersi: ma la vendetta della montagna rivelò anche il disastro di una politica immobile e silenziosa» SARNO la frana dell'Ulivo In alto e a destra, due immagini di Sarno, dopo le quattordici ondate di fango che seppellirono il paese. Sotto, Lucia Annunziata

Luoghi citati: Albenga, Italia, Roma, Sarno, Umbria