La fabbrica del conflitto

La fabbrica del conflitto discussione. Un saggio ribalta i giudizi sui rapporti tra impresa e operai La fabbrica del conflitto // valore dell'antagonismo alla Fiat Di TORINO ALL'OCCUPAZIONE delle fabbriche nel 1920 sino al licenziamento dei sessantuno nel 1979, la storia della Fiat è soprattutto la storia di un irriducibile conflitto tra la direzione aziendale e quello che un tempo veniva chiamato il movimento operaio: le relazioni industriali, nella maggiore azienda privata italiana, non sono state governate dalla reciproca adesione alle regole della contrattazione collettiva, ma determinate dai rapporti di forza che si stabilivano tra vertice e maestranze. Tuttavia il conflitto, a dispetto dei suoi terribili costi, non è stato soltanto un meccanismo distruttivo: al contrario è stato un «eccezionale strumento» per cambiare l'impresa, incidendo direttamente sulle strategie delle direzioni. L'antagonismo di classe che fermentava nelle officine può essere visto come un enorme urto, che si è abbattuto sul sistema aziendale, contribuendo a definirne la linea. Questa è la tesi che ispira il libro Conflitto industriale e struttura d'impresa alla Fiat (19191979), edito dal Mulino, da oggi nelle librerie, dello storico torinese Giuseppe Berta, già autore quest'anno, per lo stesso editore della monografia Mirafiori, al quale la Fiat ha affidato le ricerche nei suoi archivi. E' una tesi forte, con un duplice effetto sull'immagine storica della Fabbrica Italiana Automobili Torino, alla vigilia del centenario: da un lato ne fa un caso a parte, rispetto al quadro generale italiano delle relazioni industriali e soprattutto rispetto a quanto è accaduto nelle partecipazioni statali; dall'altro assume la vicenda della Fiat, per il peso enorme che ha avuto nei rapporti fra capitale e lavoro, come emblematica del significato che il Novecento ha avuto in Italia. Per queste ragioni, il libro rinnova gli studi sulla storia dell'industria italiana, in particolare sull'operato dei centri direzionali. Partiamo da una mattina dell'ottobre 1920, quando il senatore Giovanni Agnelli, parlando un linguaggio lontanissimo da quello che gli era abituale (annota Beita), comunica a uno scettico cronista della Stampa la sua intenzione di lasciare l'azienda, per «disagio» e «disamore», non ritenendosi in grado di riuscire a dirigerla di fronte agli «infiniti ostacoli» opposti dall'antagonismo operaio. Siamo all'indomani di un travagliato periodo, il biennio rosso, che era culminato con l'occupazione delle fabbriche. Soltanto nello stabilimento della Fiat Centro, tra l'ottobre 1919 e il marzo 1920, c'erano state ottocento vertenze. Le dimissioni di Agnelli, con l'ipotesi di cedere l'azienda ai lavoratori, è un episodio notissimo, variamente interpretato. Secondo Valerio Castronovo, biografo del fondatore della Fiat, e secondo Paolo Spriano, lo storico del Partito comunista, si trattò di una studiata mossa tattica, senza alcuna idea di uscire davvero di scena. Diversa la ricostruzione nel nuovo libro. «Contrariamente a Castronovo e Spriano, io penso che Agnelli giocò il tutto per tutto - ci spiega Berta -. Me ne sono convinto studiando i documenti sul mondo industriale torinese di allora: oggi sappiamo che non c'era alcuna possibilità di una rivoluzione di tipo sovietico, ma a quel tempo erano in molti a pensare che si fosse alla soglia d'una rivoluzione. L'atteggiamento di Agnelli è dunque stato: o realizzate la vostra rivoluzione o riconoscete che l'imprenditore è insostituibile. Questo determina una linea aziendale tesa a riportare la disciplina nelle officine. Agnelli guarda all'America. Il suo modello è Ford. Lo stabilimento del Lingotto è pensato allora, con la funzione di ristabilire un grande controllo imprenditoriale sugli operai, attraverso l'organizzazione tayloristica del lavoro. Questa strategia si dimostrò vincente, tanto è vero che, l'anno dopo, Torino non registrerà conflittualità nell'industria, a differenza di Milano, dove i fascisti interverranno per sedare le proteste operaie». Un secondo momento chiave sono stati gli anni del miracolo economico, quando Vittorio Valletta dichiara la guerra ai distruttoli. Anche in questo caso Berta mette in evidenza come alla Fiat si fossero vissuti, dopo la guerra, «dieci anni di lotta, di scioperi, soprattutto di un'opposizione reciprocamente vissuta», dalla direzione e dalla Fiom, non sul piano della contrattazione di interessi diversi, ma nel senso politico di una «partita esclusiva», in cui si mettevano in gioco i destini dell'azienda e del sindacato. Questo antagonismo è l'origine del vallettismo, secondo Berta, cioè di una linea che, fra il 1948 e il 1962, «reca il marchio della stabilità repressiva». Sono i cosiddetti «anni duri», rimasti nella memoria della sinistra torinese come un'epopea, una «prova del fuoco», nella quale forgiare una nuova militanza, destina- ta a ribaltare i rapporti di forza alla Fiat nell'autunno caldo del '69. Il terzo appuntamento decisivo è, dieci anni dopo, un altro autunno, quando il nuovo amministratore delegato, Cesare Romiti, s'impegna in un drammatico scontro che ha per posta il potere negli stabilimenti, o aziendale o operaio. Si tratta del licenziamento di sessantuno operai accusati di violenze e di contiguità con il terrorismo, che piomba sulla vita aziendale e sindacale come un fulmine a ciel sereno. «L'operazione fu fatta in assoluta segretezza», racconta nel libro Carlo Callieri. «La preparammo in una decina di persone all'Auto, sapendolo in corso Marconi tre-quattro in tutto». Quando fallì lo sciopero contro i licenziamenti, la direzione «intuì la misura del suo vantaggio». Ed è la reazione all'antagonismo operaista a determinare una svolta manageriale, che vede la proprietà fare un passo indietro e il management assumersi la piena responsabilità delle decisioni. Con la vertenza dei sessantuno e, l'anno dopo, la marcia dei quarantamila, secondo Berta si chiude l'epoca della conflittualità e si rientra nelle regole della contrattazione. In questa ricostruzione, che recupera pezzi di memoria collettiva, è fondamentale l'idea che sul movimento operaio torinese sia rimasto impresso il marchio gramsciano, cioè l'idea, fatta propria dall'Ordine Nuovo, che al potere aziendale si opponessero i produttori: cioè operai che per il valore professionale si sentivano i veri gestori dell'impresa. E in parte lo erano. Dietro emerge l'anomalia Fiat: un'enorme concentrazione, tale da condizionare la vita industriale del nostro Paese, senza però rappresentarla, perché è «una straordinaria eccezione». In nessun'altra impresa si poteva studiare il modello elaborato nel libro: «Esaminando da vicino il comportamento dei vertici dice Berta -, ho compreso che la direzione Fiat ha sempre avuto bisogno di un antagonista su cui configurare una strategia. Al punto da domandarci che cosa succederà dal momento che l'antagonismo è venuto a mancare». Alberto Papuzzi Non meccanismo distruttivo bensì strumento eccezionale per cambiare l'azienda determinandone le strategie Sulle dimissioni di Agnelli nel '20 una interpretazione contro Castronovo Tre momenti chiave: il biennio rosso, gli «anni duri» e la vertenza dei 61 I S Torino, ottobre 1980. La «marcia dei quarantamila». Secondo la ricerca, così si chiùdeva l'epoca della conflittualità e si rientrava nelle regole della contrattazione Antonio Gramsci Vittorio Valletta

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