Il Papa Re E' la Chiesa il nuovo Stato?

Il Papa Re E' la Chiesa il nuovo Stato? Mentre l'azione pubblica appare sempre più in affanno, solo le organizzazioni cattoliche sembrano in grado di affrontare le emergenze sociali Il Papa Re E' la Chiesa il nuovo Stato? S MILANO I vedono alla tv poliziotti e finanzieri che stringono biberon e bambole e portano in salvo bimbi curdi e kossovari, soldati che distribuiscono minestre e coperte a frotte di sventurati in palestre e capannoni. Ma poi la palla passa di solito ai volontari, alla Caritas, a una galassia di associazioni cattoliche che s'impegnano in un'assistenza ben più pesante e prolungata. E' la Chiesa che da noi medica la vera emergenza immigrati. Ed è ancora alla Chiesa e al suo turbinio di gruppi e centri che tocca avvicinarsi e curare chi va alla deriva, emarginati, drogati, malati di Aids. Lo Stato appare in affanno, latitante o approssimativo e insufficiente. La Chiesa sembra supplire alle sue carenze. E allora si può pure fare una domanda imbarazzante, provocatoria: è la Chiesa il vero Stato? «Quel che sta cambiando non è il ruolo della Chiesa, ma il paesaggio attorno a noi», sostiene l'arcivescovo di Parigi, Jean-Marie Lustiger, in una recente intervista su Avvenire. Per lui è la società che in Europa si va sfaldando, si briciola, è priva di valori morali. «Siamo di fronte a un'accelerazione dei fenomeni di rottura del tessuto civile e alla crescente incapacità di gestirli da parte delle élite politiche e culturali», denuncia il cardinale. E questa è «un'occasione, in senso forte, di manifestare l'originalità e la ragionevolezza della fede cristiana». La Chiesa può riempire un tal vuoto. E' la Chiesa a difendere in Europa i sans papier, il loro diritto a restare, a essere accolti, mentre gli Stati vorrebbero soltanto contenerli in qualche modo. Che succede dunque al nostro Stato? E' davvero così manchevole? Ci sono rischi in questo suo appannamento e in questo interventismo della Chiesa? Le risposte di due storici e editorialisti laici e di due scrittori cattolici si possono organizzare in una rappresentazione giornalistica in due tempi. Atto primo. Un disastro riempie la scena in primo piano. Macerie. E' lo Stato a pezzi. L'ex ambasciatore Sergio Romano, oggi editorialista e scrittore, lo guarda con occhio amaro, ironico. «Lo Stato sta scomparendo, s'è rimpicciolito», dice. Non batte più moneta, non fa più un bilancio autonomamente, non difende più le sue frontiere perché tanto ci pensa la Nato. «Succede anche in altri Paesi, ma in Italia le cose avvengono sempre in modo più accentuato, quasi caricaturale: l'Italia esagera sempre le tendenze degli altri, perché è più fragile. Allo Stato restano le cose sgradevoli: combattere la criminalità organizzata, imporre quel po' di tasse che può esigere senza far saltare il patto europeo di stabilità, e così via». Di contro, «la Chiesa c'è sempre, c'è di più, esercita una funzione di supplenza». Prendiamo il caso degli immigrati: per i contrasti di competenze fra lo Stato centrale e i suoi ministeri da un lato e le Regioni e gli enti locali dall'altro, per i soldi che non si riescono a trovare o a spendere, per mancanza di personale, per queste e altre ragioni lo Stato è inadempiente. La Chiesa no. Ed è un guaio, perché la Chiesa «non trova più di fronte a sé un interlocutore laico forte, e viene a mancare quel rapporto dialettico che è stato il maggior creatore di libertà in Europa. La libertà è nata dal litigio». Il rischio è allora che la Chiesa «si assoggetti alle sue componenti più radicali, più fondamentaliste. Finiranno per sentirsi le voci che non vogliono venire a patti con la modernità». Aggiunge Romano: «Si potrebbe parlare di crisi dello Stato illuministico. Basta intendersi. Io non sono un giacobino, non penso che lo Stato debba pensare per tutti, debba rappresentare la coscienza di tutti. Un liberale non è preoccupato che esista la Chiesa. Ma l'importante è che la Chiesa non si permetta di strafare, non diventi la regolatrice della vita nazionale». Entra ora in scena Giorgio Bocca, commentatore della Repubblica. «La Chiesa ritorna a essere l'unico Stato in Italia - esordisce -. Nella crisi delle democrazie l'unica autocrazia che regge è quella della Chiesa». Un Bocca accigliato, come spesso gli accade. «Lo so, sono di¬ ventato una specie di macchietta dell'indignazione, mi si dipinge come un bacchettone del laicismo azionista... La mia incazzatura è ùnpotente, mi rassegno. Da noi l'otto per mille delle tasse è dedicato alla Chiesa, mai nella storia ci fu tributo più alto. Diciamole, queste cose. Il Papa ogni settimana ha spazi tv come nessun altro, quando si mette alla finestra a biascicare parole incomprensibili le tv di Stato lo riprendono... A me piace pochissimo, questa situazione, ma è mutile lamentarsi. Il nostro è uno Stato che si lava le mani di tutto, ma col consenso dei cittadini. Roba da Basso Impero: la Chiesa sostituì l'Impero Romano, ora succede lo stesso. Dopo Carlo Magno i convertiti non diventavano cristiani perfetti, però capivano che la Chiesa era il nuovo potere. Si viveva anche allora. Si mangiava e si beveva anche in quei secoli bui. Si può continuare a vivere anche ora». Bocca è sicuro che da questo stato di cose «la Chiesa ci guadagna». Dice che la millenaria Chiesa ha sempre saputo trovare il rapporto giusto con la gente e così adesso ha capito che «l'unico modo per salvarsi, in un periodo di ateismo e di crisi religiosa, è di diventare Vangelo in pratica: la predicazione dei Vangeli è diventata predicazione sociale». Lui si dice arrabbiato per questa «invadenza», ma dice pure che ha «molto più stima per il cardinal Martini che per il sindaco Albertini, un confindustriale. Mai mi vescovo, un cardinale ha avuto tanta popolarità da quando il cattolicesimo non è più religione pra¬ ticata. Ma si tratta appunto di valori non più sacri, ma sociali». E siamo al secondo atto. La Chiesa ci guadagna, dall'attuale goffaggine, dal balbettio improvvisato dello Stato, ha appena detto Bocca. Ci si aspetterebbe che i due scrittori cattolici che ora sono chiamati a parlare siano d'accordo. Invece no. Né Vittorio Messori né Filippo Gentiloni sono contenti. L'espandersi della Chiesa nel sociale li preoccupa non poco. E il ernioso è che a questa critica comune essi provengono da percorsi opposti: Messori ha frequentato il liceo D'Azeglio di Torino, sezione A, quella famosa del professor Monti, e all'Università ha l'atto tesine per Bobbio e Firpo e s'è laureato con Galante Garrone: «Ero avviato a un destino di perfetto laicista», ricorda. Poi è cambiato, è diventato «un cattolico obbediente e papista», come si definisce, «uno che tenta di recuperare, proprio perché viene da fuori, una prospettiva autentica». Gentiloni invece era gesuita, ma poi abbandonò la Compagnia per abbracciare da cattolico laico la Chiesa del '68, il cristianesimo del dopo-Concilio che si calava nel sociale, moltiplicava i preti operai, voleva condividere l'espe¬ rienza degli ultimi Da un po' di tempo tuttavia Gentiloni privilegia un'altra Chiesa. Dei due bracci della Croce, quello orizzontale dell'impegno diretto nel mondo, e quello vellicale della ricerca spirituale, più appartata e metafisica, adesso sceglie quest'ultimo. Cosi, sia Messori sia Gentiloni finiscono con lo scuotere la testa piena di dubbi e critiche di fronte all'interventismo sociale della Chiesa. «La carità propria della Chiesa e la carila della Verità, non la canta sociale», dice Messori. Certo, potrebbe essere soddisfatto della spettacolare «rivalsa storica»: lo Stato del «cosiddetto» Risorgimento, lo Stato emerso dalle «mitologie» del XX Settembre, della presa di Porta Pia, quello Stato che ha «confiscato e laicizzato le opere caritatevoli della Chiesa», che annunciava baldanzoso la fuoriuscita «dall'oscurantismo clericale», quello stesso Stato s'è ridotto a invocare l'aiuto della Chiesa. «Bel risultato». Ma questa Chiesa che «mette i cerotti sulla cultura di uno Stato che avrebbe dovuto tutto assolvere» rischia ora di «chiudere lo sportello di informazioni sull'Aldilà per aprire un ufficio di consulenza e di intervento sociale, per divenire una colossale agenzia di volontariato». E' un pericolo, sarebbe «la morte della Chiesa». «1 preti tornino a fare il loro mestiere - esorta Messori -. Tornino ad annunciare il Vangelo e la speranza oltre la morte. Il Vangelo non è il trattato del buonista, il manuale del perfetto infermiere sociale. L'ho anche chiesto al Papa: perche nessuno nella Chiesa parla più di vita eterna? Mi ha dato ragione». Per fare della filantropia, come facevano e fanno i massoni, non era il caso di «scomodare il marchingegno celeste della Trinità, del Logos che si fa carne». L'impegno sociale è dunque importante ma secondario, «è una conseguenza, una ricaduta della fede. Prima si annunci la fede, poi la morale». E per Gentiloni l'odierno affannarsi della Chiesa nell'assistenza dà luogo a un paradosso doloroso: «Nel momento stesso in cui la Chiesa sembra incarnare l'ideale evangelico della carità, rischia di allontanarsene perché costretta a cavalcare il potere, le strutture l'organizzazione, i problemi di soldi». La Chiesa insista invece sui cattolici perche «entrino loro e organizzino, senza trincerarsi dietro etichette cattoliche, agendo invece e mischiandosi nel mondo laico come lievito nella pasta, secondo la parabola del Vangelo». Laici e cattolici dunque d'accordo: lo Stato alle corde lascia spazio ai religiosi. Un bene o un male? Mentre si dibatte la Chiesa lavora e si interroga. Claudio Altarocca // cardinale Lustiger denuncia: «Di fronte ai fenomeni di rottura del tessuto civile le élite politiche e culturali si dimostrano incapaci» Sergio Romano: «Accade anche in altri Paesi ma in Italia in modo quasi caricaturale» Gentiloni: «Così però iproblemi di soldi prevalgono sullo spirito» Il Papa Re E' la Chiesa il nuovo Stato?

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