«Se non venite, perderete l'onore» di Marco Ansaldo

«Se non venite, perderete l'onore» «Se non venite, perderete l'onore» Istanbul attende la Juve tra rabbia e frustrazione ISTANBUL DAL NOSTRO INVIATO L'impatto è ruvido. In fila, al controllo dei passaporti, ci sono turchi, spagnoli, svedesi e qualche asiatico. Di italiani, soltanto il sottoscritto. Sfrecciano tutti veloci sotto l'occhio benevolo dei funzionari di frontierafinché non tocca a noi. «Italianoeh?». «Sì, italiano». «Perché è venuto?». «Per la partita, sono giornalista». «Aspetti». Siamo gli unici cui l'addetto controlla con studiata lentezza l'identità sul computer, rovista tra le pagineesamina persino le fotografie dei figli minorenni appiccicate apassaporto. Gli altri passanonoi no, finché l'omaccione dentro il gabbiotto solleva il destro e spara una gran botta sulla pagina dove c'è il visto: lo timbra con la rabbia con cui marchierebbe la nostra faccia, se potesse. «Ricordati di Ocalan». Oddio, ci siamo. Cosa ci atten derà fino alla partita? Invece abbiamo probabilmente pescato il fanatico del mazzo. Non ne incontreremo un secondo. Anche alla sede di «Milliyet», uno dei giornali più autorevoli della Turchia, la sola pressione che riceveremo sarà dei colleghi che vogliono spiegarci perché Apo, «lo zio», è un gran farabutto e noi italiani sbagliamo a considerarlo come una specie di Cesare Battisti. Poi offrono un buon tè caldo e si offendono quando chiediamo di chiamare un taxi che ci porti in albergo. «Non si discute neppure, ti portiamo con l'auto di servizio: tu qui sei un ospite». 0 sono molto falsi o l'odio per gli italiani, che tiene lontana la Juventus, è il sentimento esclusivo dei pochi fanatici e mestatori che si vedono in tv. Quando raccontiamo a Fatih Terim che Giovanni e Umberto Agnelli vorrebbero spostare in campo neutro la sede dell'incontro e che i giocatori della Juve si ribellano alla trasferta di Istanbul, il Lippi di Turchia appanna lo sguardo. «Allora le dico che, se riusciran- no a far cambiare la sede, il calcio sarà finito e chi lo pratica non potrà più credere in nulla: si saranno piegati alla ragione del più potente, perché è ovvio che l'Italia e la Juventus sono politicamente più forti di una squadra turca. Ma non posso crederlo, è impossibile che avvenga. L'Uefa ci farà giocare qui». «L'Uefa è un organismo libero, che non si fa condizionare dalle pressioni», gli fa eco Senes Erzik, il presidente (turco) della commissione che oggi dovrà decidere se Galatasaray-Juventus si giocherà al- lo stadio Ali Sami Yen oppure verrà rinviata di una settimana per trasferirla in un altro posto. Erzik sembra non avere dubbi. Terim, l'allenatore, forse comincia a nutrirne e, mentre offre una tazza di tè e regala la maglia della sua squadra, racconta di come i suoi uomini non ne azzecchino più una. «La vera pres sione la patiamo noi e non la Juventus. Lasci stare il giornale che ha parlato di guerra santa, sono fregnacce, il calcio saprà dividersi dalla politica. Ma è vero che se vinciamo saremo eroi, se perdiamo traditori e questo non c'entra con Ocalan: tutta la Turchia vuole che battiamo gli italiani perché sono più importanti. E' il riscatto di un popolo». Da dieci giorni Terim spende fiato e attenzione, predicando sui giornali e in tv che «le scelte su quel criminale le ha fatte il governo italiano, non la Juventus, i suoi giocatori e i suoi tifosi». Ora lancia lo slogan «allo stadio ciascuno controlli il vicino di posto». Un pubblico di vigilantes, uno stadio blindato dalla polizia, un quartiere presi- diato dall'esercito, una città nel coprifuoco. Tutto questo sarebbe ancora calcio? I turchi dicono che lo è. «Persino se D'Alema consegnasse Apo ai gendarmi della frontiera, il rischio di incidenti non si annullerebbe». Perché per loro il football è una scarica che deve correre dal cervello alle mani e le mani si muovono spesso incontrollabili: quelle dei tifosi o quelle dei poliziotti che una volta ingaggiarono una rissa gigantesca con i giocatori del Manchester nel sottopassaggio dello stadio e tutto cominciò da uno spintone. «Ho letto che gli juventini si preoccupano di venire colpiti dalle pietre - afferma Taffarel, il portiere brasiliano con un passato in Italia nel Parma, nella Reggiana e nella squadra di un oratorio rionale che fu l'unica a dargli un posto dopo i Mondiali del '94 -. Le pietre qui sono come i coriandoli al Maracanà. Le tirano spesso. Vai in pullman a giocare il derby con il Besiktas e volano contro la carrozzeria, perdi una partita di campionato e per protesta ti sfasciano un vetro». Sarà vero ma se qualcuno parte da questi ordinari atti di teppismo per spiegare che la Juve, in fondo, non rischia niente più del solito, l'effetto semmai è contrario. E con Ocalan libero in Italia i rischi si moltiplicano. Il Galatasaray è una squadra interclassista, come la vecchia De, tuttavia con una forte componente di ricchi e benestanti, perché, come la Juve, nasce da un liceo, e il suo pubblico è da sempre un po' elitario. «Con il Besiktas o il Fenerbahce, la situazione sarebbe più pericolosa», raccontano a Istanbul. Un'altra rassicurazione che non convince. Alla fine, l'unica carta in mano ai turchi è proprio nella testimonianza di chi la montagna di odio anti-italiano non l'ha vista. Ma deve decidere l'Uefa, studiando le carte che il governo e la polizia turca hanno spedito a Ginevra: bisogna capire se il poderoso piano di sicurezza che si legge sui giornali non ha falle e se davvero la gente si limiterà a gridare insulti contro chi protegge Ocalan, che ai tempi dell'Università era tifoso del Galatasaray e lo rivelò in un'intervista. Ma queste, probabilmente, è un'altra storia. Marco Ansaldo