Rumori americani nell'ombra di Welles
Rumori americani nell'ombra di Welles Rumori americani nell'ombra di Welles D A quanto tempo Spielberg (che prese bambino il «futuro» - un transistor dalla mano del padre e lo ingoiò) non fa un film ambientato al presente. Lo si pensa vedendo le bandiere fordiane e lo sbarco in Normandia dell'ultimo film, dove l'unico «presente» è la sensorialità spinta e astratta da videogioco; o assistendo alla prodigiosa complessità di situazione del parco giurassico che si trasforma in mondo perduto, dove il mondo si perde, aldilà della conùcetta presente, in un vortice di tempi e stati archeobiotecnologici; o colpiti dall'apparizione fantascientifica di Schindler che prelude alla parabola brechtochapliniana delle due fabbriche (auschollywood); o sconcertati dalla geniale antifilmica intraducibilità linguistica di «Amistad» (in apparenza tutto iscritto in una correttezza politica stucchevole, ma in effetti opposto alla - per esempio - corrente «riscrittura» da parte di vari «piccoli maestri» della storia italiana tutta raggiustata e «attualizzata»). Sempre, come ancora nel piccolo film dilatato in cui si va a salvare Ryan per il godimento impaurito del regista (spettatore/traditore/disertore, partendo da ipotesi narrative da telefilm, da serie Z domenicalparrocchiale, da film di guerra cormaniano scritto in un pomeriggio e girato in dieci giorni. Si parla del cineasta americano per eccellenza, ma il discorso ovviamente si conferma col grande cinema di effetti, non solo quello bellico o fantascientifico (comunque iscritto ormai in un'aura e in una logica da «ritorno al futuro», come anche nel geniale e politico gradozero di uno «Starship Troopers» di Verhoeven) o quello degli incidenti lynchcronenbreghiani sulle strade perdute, ma ancor più con quello dei catastrofici armageddon e godzilla in cui il tempo presente si vive solo come interruzione definitiva o come sospensione o parentesi ansiosa (ma vedi anche: Kubrick su tutti, e poi Scorsese Coppola Carpenter...). Proviamo a leggere questo sprofondarsi del presente nel reticolo circoscritto di alcuni titoli dello «special program» Americana 2 qui a Torino. «Velvet Goldmine» è il punto d'inizio e di fatale confluenza. Proprio in quanto progetto atipico e iperautoriale di un regista di grande ammirevole (a tratti stupefacente) ingenuità intellettualistica (il Todd Haynes di «Poison» e di «Saie»). Meno irritantemente «artistico» ma non meno intensamente ossessivo che nei suoi film precedenti, qui Haynes confrontato con una più grossa scala produttiva fa dimenticare spesso i tic e le piattezze di uno scarso talento registico, trovando e dispiegando una grande energia e una fortissima carica «teorica». In una specie di Jurassic Park degli Anni Settanta musicali, dove non si capisce bene cosa sia smtetico o imitato, cosa marionettistico o di cartapesta o disegnato, quale sostanza glam stia luccicando o baluginando, «Velvet Goldmine» compie musicalmente l'operazione fondamentale wellesiana che il cinema del decennio non ha ancora se non occasio¬ nalmente sperimentato su se stesso (il «Jurassic Park» spielberghiano è infatti piuttosto un saggio tecnico sulle differenze dell'immaginario, come le «Histoire(s) de cinema» di Godard lo sono sulle differenze e scale autoriali di immagini); cogliere, nel fluire acquatico e ondulatorio, delle figure, dei mostri della laguna galleggianti nuotanti mutanti già mutati dal loro stesso farsi vedere/ascoltare che è già subito mi rivedere/riascoltare. Ancor più; vedere i suoni (le immagini) come una galleria culturale di corpi enciclopedici, tanto più alieni quanto più sembrino provenire da precise e definite situazioni epoche deceimi; la filologia e la sfilata/evocazione dei soggetti storici come una spettrale mascherata di tutto quel che sta luccicando dà qualche scintilla o indizio della luce che produce la storia (l'«Ed Wood» di Tim Burton è stato un circoscritto ma sublime esempio in tal senso). Lou Reed David Bowie Bryan Ferry Marc Bolan Gaiy Glitter Jim Morrison sono allora un unico mutante, un trasformer venuto dallo spazio, e le loro stesse «songs» (per benedetti problemi di diritti) risultano non di rado mutate contraffatte. Fatale sembra quindi, fin dal titolo con la risonanza del nome, lo «Storei'ront Hiteheock» di Demme. Paura flagranza nel concerto di un grande isolato musicista dai Settanta/Ottanta angloamericani, e canzoni come film parole e accordi come attori, riprese talmente ambientate (non una sala da concerti, ma appunto uno storefront vuoto, una vetrina per la più luccicante delle merci divisibili) da schizzar fuori dal tempo come in un'astronave. Mentre nel tempo presente pare ùwece rientrare «Your Friends & Neighbours» (Amici & Vicini) di Neil Lanute. Ma. Senza bisogno di musica in scena (a differenza di altri film della sezione, come «The Last Days of Disco», «The Decline of Western Civilization III», «The Apostle»...) solo con un po' di Metallica rifatti magnificamente incongrui, fascinoso e enido Rohmer senza amore, Labute prosegue il suo osservare da entomologo appassionato impassibile la «compagnia degli uomini», riportando al «senzatempo» di una ferocia strutturale dove il vivere associato si rivela il proseguire della Guerra con altri mezzi. E l'America si dissolve a sua volta negli interstizi di un galateo dello starebene come sinonimo dello staremale. «Touch of Evil», infatti. Torna, per l'ennesùna edizione esatta secondo i voleri dell'autore (ma infine non meno «rifatta» dei recenti Hitchcock remakati...?), uno dei due/tre film più belli di Welles. Delirio filologico (anche benemerito) che ricostruisce i tagli esatti, i modi di dire, i tempi, lo stile di un autore che già al primo film, il «Citizen Kane» cui palesemente si ispira «Velvet Goldmine») aveva intravisto come lo stile/uomo anche più sfrenato o esibito poco c'entri con (poco scalfisca) l'oltreumana macchina del cinema. enrico ghezzi
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