SE LA FLESSIBILITÀ È INFLESSIBILE di Luciano Gallino

SE LA FLESSIBILITÀ È INFLESSIBILE SE LA FLESSIBILITÀ È INFLESSIBILE Lavoro: un concetto politico, non economico ENCHE' tocchino temi disparati, gli articoli sul lavoro che cambia proposti da «Parolechiave» condividono il proposito di non guardare ad esso come se fosse soltanto un fenomeno tecnico od economico. I più rimarcano che il lavoro è anche un mezzo di cittadinanza, un fattore di coesione sociale, una modalità insostituibile - con le parole di Simone Weil - di radicamento dell'individuo. Il che vuol dire che la questione del lavoro e dell'occupazione è al tempo stesso ima fondamentale questione sociale e politica. Un simile approccio non è del tutto una sorpresa in una rivista che è l'erede diretta di «Problemi del socialismo», fondata da Lelio Basso, segretario del Psi nei primi anni del dopoguerra e più tardi presidente del Psiup. Ma da qualche anno una parte considerevole degli intellettuali di sinistra, presi dal meritorio impegno di contribuire nei limiti del loro ruolo al risanamento strutturale del bilancio pubblico, avevano finito per apparire talmente prossimi alla concezione del lavoro come prevalente fatto economico, che ritrovarne buon numero at¬ testati a difesa della concezione antagonista, o se si vuole complementare, appare in qualche modo una novità rinfrescante. Se si guarda al lavoro come ad un fattore essenziale di coesione sociale molte cose appaiono in una luce diversa. Si è quasi subito portati a chiedersi, come fa Gian Primo Cella, se una esasperata facilità di entrata e uscita dal mercato del lavoro - quel che si intende per flessibilità - o la frammentazione del lavoro inerente nella diffusione dei lavori atipici, non rischino di consolidare nuove forme di esclusione. 0 in quale modo si riescano a inventare forme di protezione sociale e di rappresentanza sindacale che dinanzi a queste nuove realtà sappiano ridare àgli individui un minimo di fiducia nel proprio futuro professionale. E come fanno società culturalmente affatto diverse da quelle occidentali a regolare la propria integrazione per mezzo del lavoro? Noi siamo infatti avvezzi a considerare la nostra concezione del lavoro, figlia dell'etica puritana e della rivoluzione industriale, come la sola veramente adatta al mondo moderno. Ma il mondo indù e quello giapponese si sono a loro volta modernizzati appoggiandosi a concezioni del lavoro affatto differenti. Come spiega Caterina Guenzi, a fondamento dell'idea indù di lavoro vi è lo «sforzo» che l'uomo compie su se stesso per adeguare la propria natura al dharma, alla legge cosmica. Al lume di questa idea, anche gli stadi della vita che un individuo deve percorrere sono considerati come «lavoro». Quanto alla tradizione nipponica, ci dice un bel saggio di Sandro Mazzei, «non esiste niente di analogo all'idea occidentale del lavoro inteso come maledizione e come una forma di dominio dell'uomo sulla natura». Essa, piuttosto, valuta il lavoro come ciò che dà un senso all'esistenza dell'uomo, ma in un'accezione - diversamente da quanto è avvenuto in Occidente, -.rigorosamentej^tramondana^ Ed: è Ta,comunità adi Jp-1 serire l'individuo in tale sfera di senso. Guardare al lavoro che cambia in modo non convenzionale conduce di per sé a riflettere, cercando nuovamente di uscire dalle strade battute, anche su altri aspetti della vita economica. Articolati dubbi vengono espressi in alcuni di questi saggi sulla presunta novità radicale della globalizzazione. E' vero che oggi tutto può essere prodotto e venduto dovunque, e che il commercio gode di una libertà senza confini, ma questa, dati alla mano, è esattamente la situazione che si osservava tra il 1890 e il 1910. In altre parole, ci sono voluti 25 anni, dal 1970 in poi, per ritornare al grado di apertura delle frontiere che esisteva già prima della fine del secolo precedente. Esso andò perso nel vortice delle due guerre mondiali, della crisi del '29, e dell'insorgere in Europa, a Est ed a Ovest, di regimi totalitari. Ciò che vi è di categoricamente nuovo nella globalizzazione è la possibilità di spostare istantaneamente da un continente all'altro masse enormi di denaro, grazie alle tecnologie telematiche, al solo fine di trarre profitto dal differenziale di valore tra divise o titoli che capita osservare in un dato giorno. E' da tale schiacciante predominio dell'economia finanziaria sull'economia reale che vengono le minacce più serie per il futuro del lavoro e dell'occupazione in tutto il pianeta, come dimostrano le crisi dei Paesi asiatici apertesi nell'estate del '97 per poi diffondersi con effetto domino, sino a questi mesi del '98, all'America del Sud e alla Russia. Crisi prettamente finanziarie all'origine, ma che hanno già portato alla perdita di milioni di posti di lavoro nell'industria e nei servizi. Da qui la necessità, sottolineata da Riccardo Bellofiore, di , mettere in opera strumenti di regolazione dei flussi finanziari, in speT eie di quelli a breve termine, i più caratterizzati da intenti speculativi. Ma si veda il paradosso: al presente, non sono più soltanto riviste di ispirazione socialista a richiedere un ritorno alle regole sui mercati finanziari. La forza delle cose, e il rumore dei fallimenti, tipo quello della Ltcm (la più grande banca di investimenti statunitense) fanno sì che a tale richiesta comincino ad associarsi perfino Fortune o Business Week, alfieri del pensiero liberista. Luciano Gallino Speciale «Parolechiave»: dal Giappone all'India, a noi, le nuove società della globalizzazione Ormai destra e sinistra auspicano insieme il ritorno alle regole sui mercati finanziari LAVORO Numero speciale di «Parolechiave» n°. 14/15, AA.W. Donzelli pp.317 L. 60.000

Persone citate: Caterina Guenzi, Fortune, Gian Primo Cella, Lelio Basso, Riccardo Bellofiore, Sandro Mazzei, Simone Weil

Luoghi citati: America Del Sud, Europa, Giappone, India, Russia