Kovacic, il centravanti di Dio

Kovacic, il centravanti di Dio L'ex bomber del Brescia: «Sono tornato a Zagabria a coltivare la terra e a studiare religione» Kovacic, il centravanti di Dio «Vivere il Vangelo vale più di un gol» LA STORIA IL CAMPIONE CONVERTITO COME va?, gli chiese. Lui disse: «Benissimo». Sospirò. «Perché?». Hai cambiato vita, fece il cronista, volevo sapere com'era quella nuova. Lui disse: «bellissima». Eppure, Milienko Kovacic era semplicemente tornato a fare quello che faceva prima. Se lo cerchi adesso, sua moglie corre sull'uscio e il suo urlo si sperde nei prati. «Kolia arriva fra dieci minuti, signore». Il giorno che passò allo stadio e svuotò l'armadietto nello spogliatoio, prese le scarpe da calcio, i calzettoni, i parastinchi, la maglia da regalare a Govida, la tuta azzurra sporca di fango, quel giorno lui disse: «Avrò due o tre mucche, un campo, la frutta, la verdura». Niente Ferrari, niente soldi a palate. Avrò un amico che mi aiuterà a cambiare: il mio Signore, disse. «Perché? Qui non c'era, Kova?», gli chiese il massaggiatore. Milienko rispose così: «Ero io che non c'ero». Questa 6 la storia di Milienko Kovacic, calciatore del Brescia, in serie B, che qualche giorno fa salutò tutti, i compagni di squadra, i dirigenti, i cronisti, e annunciò che sarebbe tornato a fare il contadino a casa sua, in Croazia, e a predicare, nel nome del Signore: «Per giocare servono rabbia e cattiveria. Io non me la sento». Così Kolia, come lo chiamano ancora adesso tanti, tornò indietro, a Krizevci, vicino a Zagabria. Salutò l'allenatore, Bandini, in silenzio. Lui era il migliore di tutti, dice. «Anche lui è mi uomo vicino a Dio. Tanti hanno fatto fìnta di capire. Lui no. Mi disse solo una cosa. Io voglio bene alla tua vita. Fai quello che senti». Così è partito, Kova. Non ci ha messo molto a convincere sua moglie Goga. Le chiese, una sera, davanti a un piatto di minestra: «Ti piace questa vita?». Lei disse: «Non mi piace vederti soffrire». Una volta, chiacchierando con i giornalisti, Milienko confessò: «Io non capisco le leggi del calcio. Dicono: quando un avversario ti entra addosso con due gambe, tu devi farlo con quattro. E' la legge della forza, la legge del taglione. Ma chi lo dice che dev'essere sempre così?». Lo dice la vita, gli rispondevano gli altri: «Lascia perdere». Goga invece quella sera gli disse che forse non era sempre così, che forse poteva non essere così: «La vita è quella che facciamo noi. Possiamo farne un'altra se vogliamo». Allora, adesso Kolia è felice. Ha le mani sporche di terra, gli scarponi ai piedi. Coltiva patate, pomodori, la frutta da mangiare. Niente came, «perché io sono vegetariano», dice. Quand'era bambino c'erano volte che si svegliava alle sei per seguire il babbo che andava con la vanga a rigirar la terra dei campi. Quando finiva, lui e gli altri ragazzini restavano a giocare a pallone. Ti piaceva, Kolia? «Da pazzi. Il calcio mi ha sempre dato gioia». Anche adesso? «Anche adesso». Perché, allora, lasciare tutto questo? «Ma io non ho lasciato questo. Io non ho lasciato il calcio. Io ho lasciato il lavoro del calcio». Cominciò sei anni fa. La squadra era la Croatia, serie A, la squadra dove ha giocato Tudor che ora fa lo stopper nella Juve, e altri che stanno per arrivare nel campionato italiano. Milienko Kovacic l'avevano portato via dalla terra e l'avevano fatto esordire 5 anni fa, in prima squadra, massima serie. Attaccante, dice la sua scheda. Nato a Zagabria. Il 17/03/1973, segno dei Pesci, che possono essere truffatori o sognatori, lo sai, Kolia? «Sì, lo so. Non mi riguarda». Alto, 180 cm. Peso, 72 chili. Andarono a prenderlo una domenica, a Zagabria. I compagni di squadra gli davano di gomito: «Sono venuti dall'Italia». Ancora se lo ricorda, Kova, il primo viaggio, i sogni, il mondo del pallone, il nuovo stadio, le macchinone sul piazzale, i sorrisi che gli facevano tutti, il mondo che scendeva dall'ascensore: «Sembrava tutto facile». Lo portarono a Brescia. Era silenzioso, timido, non diceva una parola in italiano, ma in compenso se la cavava con l'inglese. Gli stavano tutti molto vicino anche perché una tragedia lo aveva colpito subito, appena arrivato da noi: sua moglie Goga perse la bambina che avevano aspettato per nove mesi. Sul campo, però, Milienko andava bene. L'esordio nel nostro campionato avvenne due anni fa: sedici presenze nel Brescia e due gol. La squadra fu promossa in A. Poi, la ruota cominciò a girare. Il Brescia retrocesse in serie B, Kova giocava sempre di meno come titolare. Lui dice che la sua scelta l'ave¬ va maturata a lungo, che l'aveva già decisa: «Io 8 anni fa ho cominciato a studiare religione. Ho iniziato, perché nessuno riusciva a rispondere alle mie domande. Ho cercato risposta nello studio della parola del Signore». Ma si può studiare giocando a pallone... «L'ho fatto». E perché smettere così? «Ma io non ho lasciato il calcio perché non mi piace. Io ho lasciato il calcio perché ho trovato felicità più grande. Da due tre anni avevo cominciato a fare quello che Dio voleva da me. Se tu fai quello bene, allora Dio vede che tu sei sincero, e ti apre la mente, il cuore, e quello che ti dà è più grande di quello che puoi sentire nel mondo materiale. Se noi cominciamo a vivere secondo la Sacra Scrittura, avremo tanta gioia più forte e più grande di quella che ci dà il calcio». Ne parlavi con gli altri? «Poco». Perché? «Sono cose difficili da capire per gente che vive in maniera diversa. Nel calcio, contano altri valori, la ricchezza, la macchina bella, tante donne, i soldi e l'aggressività. Sono questi i valori. E' un mondo onesto rispetto ad altri, il più onesto che ho conosciuto. Ma è lontano da me. Loro vanno a Messa, ma non credono. Sai cosa vuole dire credere? Che se tu credi nel fuoco, ti butti dentro». Il calcio è troppo cattivo? «Non solo il calcio. Tutto il mondo. E il calcio vive nel mondo, e vive con il mondo. Okay? Il mio esempio è il mio lavoro. E' l'unica cosa che posso fare. Per questo ho voluto fare il contadino. Per cambiare me stesso. Guarda, se noi voghamo andare in cielo, noi dobbiamo donare la nostra vita a Dio. E non possiamo regalare la nostra vita, se non abbiamo tempo e spazio per trovare noi stessi. Allora, le scritture sacre dicono che nella terra c'è l'esistenza. Io qui mi dò da mangiare e prego il Signore». Kova parla così. Vien da pensare quanto sia strano come il nome di Dio giri così tanto attorno al pallone e allo sport. Damiano Tommasi, centrocampista della Roma e della Nazionale, ha detto che lo capisce, Kolia: «Kovacic ha scelto Dio, ha scelto di uscire in anticipo dalla scatola, da quella scatola nella quale rischi di rimanere chiuso fino a 34 anni e poi venir fuori e ritrovarti solo». Però, quello che colpisce di questa storia, quello che vorremmo capire è*il resto: Milienko ha fatto esattamente il contrario di quello che tutti hanno sempre fatto, perché nella mitologia moderna dello sport, l'atleta alla fine è più forte eli ogni cosa, e riesce a battere anche la parola del Signore, riesce a piegarla alla legge del suo valore. Non è così che ha fatto Jonathan Edwards, figlio del reverendo Andy, salto triplo, titolo e record del mondo conquistati dopo una lunga crisi religiosa? «Il salto triplo - diceva - è il mio destino». E non poteva essere il pallone il destino di Kovacic? «No. Io penso che la scelta di Edwards sia quella sbagliata. Lui ha fatto felice la gente per poche ore. Lui ha sfruttato il suo talento per dare poca gioia. Non ha pensato alla gioia più grande, quella che sta dopo di noi. Cosa vale un'eternità di fronte a pochi minuti? Ha saltato più di 18 metri. Dopo, cosa c'è?». Pierangelo Sapegno «Per giocare servono rabbia e cattiveria Io non me la sentivo Voglio bene al prossimo» «Nel calcio contano valori in cui non credo: i soldi, le macchine e le belle donne» Accanto, Zagabria A destra, Milienko Kovacic: ha lasciato la serie B per tornare in Croazia a fare il contadino e a predicare il Vangelo

Luoghi citati: Brescia, Croazia, Italia, Zagabria