A Istanbul un giorno senza roghi di Mimmo Candito

A Istanbul un giorno senza roghi A Istanbul un giorno senza roghi Al consolato solo polizia e 20 dimostranti ciechi NELLA CAPITALE ISTANBUL DAL NOSTRO INVIATO Vigilato da presso da un manipolo infreddolito di poliziotti, un silenzio desueto ha segnato la giornata di ieri, per il Consolato generale d'Italia, dopo che questa settimana era stata furibonda di proteste, di canti, di bandiere bruciate. Una sola virtuosa eccezione ha fatto comunque la polizia, e davanti al cancello ammaccato dalie battaglie anti-italiane son potuti arrivare una ventina di ciechi, che pur marciando con comprensibile incertezza ci tenevano comunque a esprimere - anch'essi, perché no - la legittima indignazione della categoria dei non vedenti. Il resto dei protestatori professionisti che solevano convocarsi per gridare slogan e lanciare uova marce se n'è rimasto a casa; in parte per il gelo, ma soprattutto per la blindatura totale, ermetica, che qualche migliaio di poliziotti aveva piazzato all'intero quartiere di Beyoglu, isolando Istqlal Caddesi e ogni accesso al centro di Istanbul. I ciechi comunque hanno fatto la loro marcia, il loro dignitoso discorso, e poi, un po' titubanti, com'è logico, se ne sono tornati a casa, a pranzo. Era già l'una, il centro di questa città restava terra vuota. Quei ciechi e questa blindatura poliziesca sono una buona metafora della Turchia d'oggi. Soltanto un leader populista e con l'acqua alla gola può cavalcare ancora, come Yilmaz va facendo, la irresponsabile campagna nazionalista che ha trascinato questo Paese all'isterismo collettivo. Yilmaz orchestra con spregiudicatezza le emozioni della sua gente, lanciando furiose parole d'ordine che minacciano «guerra» e «vendette eterne», come se di Medio Evo si trattasse e non di un Paese che bussa alle porte dell'Europa. Ma questa follia - alla quale ogni forza politica presta il fiato delle elezioni imminenti - comincia a rivelare i rischi che le stanno dietro. Per primo aveva provato a dirlo Ecevit, esortando a non procurarsi troppo danno con la cecità, appunto, di certe manifestazioni, che rischiano di fare solo guai e che comunque blindano, appunto, la Turchia isolandola fuori dal mondo della civiltà e del diritto. Ora ha imboccato la stessa direzione un primo gruppo d'imprendi- tori, finanzieri, commentatori economici, che lancia un allarme ancora più preoccupato di quello di Ecevit, perché questa volta si parla di quattrini concreti e immediati, e non soltanto di un vago, lontano, orizzonte europeo. Il modo più efficace per comunicarlo l'ha trovato la catena Benetton (e la drittata pare tanto scaltra che si ha voglia di ve- dervi l'impronta di quel furbone di Toscani): ogni vetrina dei 171 negozi turchi espone un grande drappo nero, con un proclama a lettere bianche. «Noi, Benetton, rinunciamo ai nostri colori. Siamo in Turchia dal 1984, diamo lavoro a 5 mila persone. Però prima di tutto noi siamo turchi e siamo arrabbiati anche noi con il governo italiano». Il proclama, che è anche stampato a piena pagina su tutti i giornali, mette un bel giro di parole per dire, sostanzialmente, una cosa soltanto: attenzione, noi ci chiamiamo Benetton ma siamo turchi e diamo lavoro ai turchi, e ogni lira (turca) che voi non spendete da noi è una lira (turca) sottratta alla nostra economia e non a quella dell'Italia. Mentre Yilmaz guarda alla pesante accusa di corruzione che mercoledì lo butterà giù dal governo, ed eccita gli animi per guadagnarsi facili consensi (cioè poi facili voti), gli economisti cominciano i conti. Gli affari tra l'Italia e la Turchia sono di quelli grossi, con più di 10 mila miliardi di lire (italiane). Un boicottaggio farebbe certamente danni ai nostri esportatori, ma danni ancora più seri si ritorcerebbero sugli esportatori turchi, che hanno in Italia il loro qunito mercato. E dietro la blindatura d'Istanbul, e l'ordine che la sottmtendeva di evitare assolutamente qualsiasi incidente, si poteva scorgere anche un primo atto di razionalità politica: fuoco e fiamme per la piazza interna, ma teniamo il controllo di fronte ai media. Ieri uno dei più di 2000 curdi che qui sono stati arrestati in questi giorni durante le loro manifestazioni di protesta è morto nelle prigioni della polizia, per le botte ricevute in carcere. Notizie simili non sono purtroppo infrequenti, in questo Paese, dove i diritti civili che l'Europa ha l'orgoglio di proteggere sono invece considerati un accessorio fastidioso, e trascurabile, della democrazia. Ogni sabato, a Istanbul, proprio nel quartiere di Beyoglu, da molti anni le «madri pazze», le mamme dei curdi desaparecidos nelle galere, tentano di manifestare il diritto della memoria e della giustizia, proprio come fanno le madri di Plaza de Mayo. Sono manifestazioni che finiscono quasi sempre con pestaggi di una violenza che nessun Paese civile ammetterebbe (il vostro reporter ne è stato testinone, in passato). Ieri era sabato, ma le «madri pazze» non hanno potuto nemmeno superare la blindatura dei poliziotti: quella marcia era uno spettacolo che questa Turchia resa cieca dai politicanti non poteva offrire. Ora qui si va dicendo che magari Ocalan finisce in Libia. Però intanto i proclami nazionalistici vanno sulla spinta dell'inerzia; e l'imminente partita qui della Juventus con il Galatasaray è l'occasione per dire che «questa partita è come una guerra con l'Italia. Vincetela, e sarete eroi nazionali. Se la perdete, sarete traditori della patria». Non vorremmo stare nei panni di uno juventino, che a questo punto non sa più bene, nemmeno lui, se sia chiamato a praticare il calcio o se debba piazzarsi sulla linea del Piave. Forse solo il Papa può metterci una mano; o comunque, così lo crede don Pierre Brunessin, parroco della Chiesa Italiana di Samsun, che è ima settimana che sostiene di essere prigioniero nella sua canonica. «Io sono francese - dice don Pierre - e sono per il boicottaggio; ma questi manifestanti non lo vogliono capire. Che Sua Santità intervenga». Il parroco e Yilmaz recitano la stessa pellicola. Mimmo Candito Sopra, i curdi lasciano piazza Celimontana a Roma e dimostranti anti-italiani ad Ankara A sinistra il drappo nero dei negozi Benetton

Persone citate: Benetton, Ecevit, Ocalan, Pierre Brunessin, Toscani, Yilmaz