Manovra diversiva su Roma di Igor Man

Manovra diversiva su Roma Manovra diversiva su Roma Un Paese tra crisi politica e rancori europei COME spesso accade, il dibattito politicamente feroce sul governo turco presunto mafioso (perché questa è, in buona sostanza, l'accusa dell'opposizione) ha rotto gb' argini parlamentari: è entrato nelle case, ha invaso i giornali, la vita del paese. Avvelenando gli animi. E' già successo e non soltanto in Turchia: la Storia della politica gronda di congiunture similari. Solo che in Turchia crisi del genere (crisi di sistema) sono state risolte non (sempre) democraticamente,- anzi di solilo con un golpe. Un golpe «pulito» perché eseguito dai militari, implacabili custodi della salute del paese. E' nella tradizione della Turchia moderna e post, l'andare e venire dei militari dalla caserma al Palazzo e, una volta riportato l'ordine (con le spicce, come si conviene a soldati inflessibili quali i turchi sono), dal Palazzo alla caserma. Ed ecco che paventando il solito golpe, la sinistra democratica sollecita il Palazzo a «congelare» la crisi che intisichisco il governo, per dedicarsi «alla diatriba con Roma». Ed ecco il diffuso quotidiano Millyet scrivere: «Mentre il paese è impegnato in una seria battaglia all'estero, non è nell'interesse di nessuno sfilare la poltrona da sotto all'esecutivo». Insomma, accantoniamo la crisi di Ankara, combattiamo a Roma. Questa può essere la chiave di lettura. Ma va detto, per maggior chiarezza, che quella che chiameremo la «crisi del curdo» (riferendoci alla richiesta di asilo di Ocalan) è per quanto riguarda la Turchia la valvola di sfogo di una pesante frustrazione politica. La Turchia fa parte della Nato e la sua presenza in quest'organismo così delicato e (fórse) necessario anche oggi che non esiste più l'equilibrio del terrore atomico, indubbiamente ci conforta. Il guaio è che la Turchia, forse ipervalutando i suoi meriti (che non sono pochi), ha chiesto di entrare nell'Unione Europea. Convinta appimto, di averne diritto, sperava o credeva che la sua domanda d'ingresso venisse accettata su due piedi. Invece la Turchia è stata messa in Usta d'attesa. Lunghissima, per giunta. Da qui amarezza e fors'anche rancore verso alcuni paesi europei di spicco e soprattutto verso l'Italia che, a dirla schietta, in passato è stata piuttosto accomodante nei riguardi della Turchia (si veda la crisi di Cipro). Ora la domanda è questa: perché la Turchia invece dì entrare subito in Europa dovrà aspettare e probabilmente a lungo? Risposta: perché la Turchia non rispetta i diritti umani. La tortura, le carceri abbiette (dove le vittime prime dell'immondo trattamento, della violenza [anche sessuale] sistematica, sono persone di nazionalità curda), gli interrogatori di polizia barbari, il misconoscimento dell'habeas corpus, infine la pratica della condanna a morte (raramente applicata negli ultimi anni) che altro non sono se non la negazione mostruosa dei diritti umani? Nel gennaio del 1979 conobbi Abdi Ipekci, il Carlo Casalegno della Turchia. Fu ucciso nel marzo di quell'anno da un giovine (20 anni) attivista del partito dei «lupi grigi» del funesto colonnello Turkes. Vice direttore, editorialista di Milliyet, Abdi dedicava la maggior parte dei suoi interventi al problema dei diritti umani, denunciando l'inquinamento possibile delle forze armate ad opera di vecchi arnesi d'un parafascismo terrorista, protagonisti della strage di Kahramanmaras (21-24 dicembre del 1978). Nel suo piccolo ufficio redazionale, gonfio di libri e di cartacce, Abdi, scattante, baffuto, il classico intellettuale kemalista che aveva risciacquato i suoi panni nell'Arno della cultura occidentale, mi disse: «La Turchia vuole e può essere il gendarme della democrazia sul Bosforo; ma per essere credibile il nostro paese dovrà rigenerarsi: uscendo dall'equivoco pernicioso dell'autoritarismo scambiato per panacea. Una vera democrazia non può essere autoritaria. Celebrando l'autoritarismo noi rischiamo di creare un neofascismo turco». E i curdi, gli chiesi, i curdi sono un problema nazionale? «Se non sarà loro resa un minimo di giustizia, diventeranno una tragedia nazionale, della quale porterà la responsabilità maggiore, duole dirlo, il nostro esercito. Un esercito moralista che ahimé non sa far politica». Sino a questo momento l'esercito non si è fatto né sentire né vedere sul ((fronte Italia». L'esercito turco è l'ultima roccaforte del kemalismo. E' una struttura composita, governata da una disciplina senza misericordia. Essere la roccaforte del kemalismo significa, almeno in teoria, che ogni soldato, ogni ufficiale si consideri «al servizio del paese e non dei politici». Geloso custode del lascito nazionalista di Ghazi (il vittorioso), cioè Atatùrk, l'esercito turco «vigila» e se interviene lo fa «per raddrizzare la rotta». ((Al servizio del paese e non dei politici»: questo il motto dell'esercito turco. Il quale ha scatenato una guerra senza quartiere contro i curdi, deciso a sterminare il Pkk, il movimento di Ocalan. Ma la Turchia più liberale, quella che abbiamo sempre rispettato in un concerto di reciproco rispetto, per fortuna si dissocia dall'assurda campagna contro l'Italia. Chi scrive ha vissuto il difficile cammino della Turchia verso un inserimento pieno nell'Europa, con rispetto, con simpatia. E può comprendere la frustrazione di questo paese amico, la cui gente, per molti versi, somiglia tanto alla nostra gente del Sud. Può dunque suggerire, in tutta umiltà, soprattutto ai militari, che la questione curda può essere risolta soltanto con la politica. Tutto il resto è silenzio. Tutto il resto è isolamento. Due «punizioni» che la Turchia profonda non merita. Igor Man lud

Persone citate: Carlo Casalegno, Ocalan, Turkes