A Istanbul spazzata dalla tempesta italiana

A Istanbul spazzata dalla tempesta italiana A Istanbul spazzata dalla tempesta italiana REPORTAGE LA RABBIA D'UN PAESE ISTANBUL DAL NOSTRO INVIATO «Il Signore spezzò il pane, e disse...». Non ebbe però modo di finire le parole di sempre, padre Marcello, e se ne restò lì, inebetito, con l'ostia che tremava dentro le sue mairi di vecchio prete. Nel silenzio leggero della chiesa di Sant'Antonio una giovane donna di era alzata in piedi e lo aveva interrotto, sventolando un foglio bianco. «Voglio parlare, prete. Io debbo leggerti questo, a nome di tutti coloro che soffrono». Gridava, tesa, agitata. Le pie donne che stavano in ginocchio si gelarono. Una vecchia lanciò un urlo, spaventata. E dal fondo si mossero allora i poliziotti, la chiesa muta diventò un mercato. «Pace, figlioli. Stiamo celebrando la Santa Messa», disse piano padre Marcello, e si fece il segno della croce. Ma nessuno l'ascoltava. La donna del foglio bianco venne portata via di peso, insieme con alcuni uomini che tentavano di aiutarla. Il vecchio frate completò frettolosamente il suo servizio e diede la benedizione. Poi svestì la tonaca, e uscì, chiudendosi stretto nello spolverino grigio. Aveva ancora le mani che tremavano, e tentava di sorridere. «No, figliolo, non ho capito bene che cosa volessero. Sai, io faccio il prete». La strada era piena di poliziotti, e dietro le lenti spesse il povero padre Marcello cercava di non vedere in quale mai mondo gli fosse capitato di dover vivere. Sorrideva, ma non era un sorriso. Così vanno le cose in Turchia, dove un gruppo di curdi che tenta di manifestare a favore di Ocalan deve rifiugiarsi in un'antica chiesa cattolica per non trovarsi con le ossa bastonate, e dove i preti debbono fare come don Abbondio, un saggio curato che al Manzoni confessava come sia sempre meglio non intrigarsi delle faccende che non ti riguardano. Per capire quale tempesta stia scatenando questa storia di Ocalan (leggetelo Ogialàn), la cosa migliore è lasciare per ora da parte la grigia Ankara con le sue strade ministeriali, i suoi palazzi sovietici, i suoi doveri della politica, e venirsene invece qui, a Co¬ stantinopoli, dove i muri parlano ancora veneziamo e zeneise. E Sant'Antonio, che è una brutta chiesa fintogotica, la trovi nel cuore di Istiqlal Caddesi, lo stradone che un tempo si chiamava Grande Rue de Pera e tagliava in due il nobile quartiere di Beyoglu. A Beyoglu è lo stesso che starsene a Piccapietra, o forse a Campo San Marco. Le stradine s'incuneano ripide, strette come carrugi, tra i vecchi palazzi che chiudono il cielo. Manca soltanto la statua del balilla, o la punta di un campanile bianco e rosso. Al tempo dell'Impero Ottomano i turchi avevano sostituito le bandiere dei genovesi e dei veneziani, ma le lingue e le facce - le stesse di oggi - s'erano mescolate senza fatica con i nuovi venuti. E comunque, le leggi che regolavano i rapporti erano quelle compartimentali, che garantivano, a chi era rimasto, il diritto di essere giudicato come cittadino del proprio Paese. Istanbul era pur sempre Costantinopoli, cioè la capitale di un mondo che assorbiva con magnanima tolleranza il meticciato delle civiltà senza frontiera. Poi venne la Grande Guerra, e l'Impero Ottomano sparì dalla storia; e gli diti, ò come se la resistenza del nostro governo a consegnargli Ocalan rompesse un antico legame di fratellanza. Come se violasse il dovere comunque di un sentire comune. Per questo, ora vengono tutti a manifestare qui davanti: i curdi, che poi scappano a rifugiarsi in chiesa, e i Lupi Grigi che invece bruciano la nostra bandiera e cantano «Traditori. Traditori». La radio porta la notizia di 6000 detenuti curdi che fanno lo sciopero della fame nelle loro celle e perfino di una decina di loro che si sono dati fuoco. E una donna, a Yusekova, laggiù nel Kurdistan, si è fatta saltare in aria ferendo sei soldati. Ma la radio dice anche di molte industrie che hanno dichiarato già il «boicottaggio» delle imprese italiane (che pure sono il secondo partner della Turchia). L'aria, isnomma, s'inquina di rabbia e di proteste. Il presidente Demirel fa sapere da Vienna che no, «la pena di morte non sarà abolita perché il nostro Paese non lo vuole». Uno degli allievi del Liceo Italiano scruta il giornalista che gli chiede un'opinione, ci pensa un poco, poi sbotta: «Ocalan è un terrorista, è come lo Brigate Rosse. Dovete darcelo, italiani e turchi sono fratelli». Intanto, ad Adana, stasera c'è una partita di basket, tra la squadra locale e le italiane di Priolo. Saremo pure fratelli, ma la polizia è mobilitata in forze e l'allenatore Santo Coppa incrocia le dita. Mercoledì, poi, arriva anche la Juve. Allora, forse è meglio incrociarle tutti, le dita. Mimmo Candito italiani ritrovarono subito le loro radici, i loro antichi edifici. Qui c'è la grande villa ombrosa del Consolato Generale, il Palazzo Venezia che fu ambasciata del Regno di Sardegna, l'antico Ospedale Italiano, la Scuola Italiana con il liceo frequentato dai figli della buona borghesia. Qui tutto sa davvero d'Italia. Il console Roberto Santopietro sfoglia i giornali con amarezza: «Oggi hanno titoli terribili». Il fax del consolato è inondato di messaggi di rabbia, di rimprovero, di delusione. Cento, duecento, mille messaggi. I turchi si sentono tra-

Persone citate: Demirel, Lupi Grigi, Manzoni, Mimmo Candito, Ocalan, Priolo, Roberto Santopietro