Silenzio, va in onda l'ipocrisia di Stefano Bartezzaghi
Silenzio, va in onda l'ipocrisia Nel gioco di specchi fra teatri tv e teatri politici non è più il pubblico che decide Silenzio, va in onda l'ipocrisia ALLA fine, niente di niente: la parodia della signora Daniela Fini, moglie del presidente di An, non è andata in onda neppure con le pecette dei beep. In un primo momento si era ipotizzato di coprire il nome della signora, nella scenetta interpretata da Cinzia Leone nella Posta del cuore di Raidue, la rete di Carlo Freccerò. Ma poi, sia stato per pressioni politiche (in realtà negate) o per prudenza editoriale, censura o autocensura, si è preferito trasmettere qualcos'altro, e lasciare in pace la signora. Anche Cesare Maldini, peraltro, avrebbe pregato Teo Teocoli di non insistere troppo con la sua imitazione. Ma un allenatore di calcio può non intuire quello che i teorici della parodia Guido Almansi e Guido Fink hanno spiegato per tempo: che la parodia talvolta ha un carattere glorificante: ti scimmiotto perché ti ammiro. Parodiato, Giosuè Car¬ ducci ammise: «La parodia è riconoscimento di poesia», Maldini non lo ammette, ma il suo amico Teocoli gli rende un servizio affettuosissimo, nonché esilarante. Molto più delicato il caso di Daniela Fini, nella parodia che gli fa Cinzia Leone non vi è certo spreco di poesia mentre, al contrario, è più facile annusarci del cattivo gusto. Ma chi deve giudicare? Fa una certa impressione che questi casi vengano affrontati come se tutto fosse lineare: da una parte la televisione, dall'altra il potere, la tv prende in giro il potere, il potere cerca di prendere in castagna la tv. Questo forse non era già vero neppure nello storico caso della Canzonissima di Dario Fo censurata da Ettore Bernabei. Ma tantomeno lo è adesso: dopo il Bagaglino, dopo sistematici adeguamenti del consiglio di amministrazione Rai alle diverse maggioranze di governo, dopo la scesa in campo del maggiore editore privato, che in una sua dichiarazione ha subito e definitivamente inchiodato la politica alla sua essenza di «teatrino». Nei teatrini veri, il giudice è il pubblico, e anche la politica si adegua a questa norma, ha le sue guitterie e i suoi applausometri. Se non fosse per un'esigenza teatrale e mitica (la Famiglia del Leader) nessuno conoscerebbe il nome, le abitudini e le opinioni delle signore Fini, Bertinotti, D'Alema, Berlusconi, e nessuno troverebbe gusto (buono o cattivo) nelle loro parodie. Ma nel gioco di specchio fra teatri tv e teatri politici non è più il pubblico che decide. E chi si attiene all'ipocrita regola "nel dubbio mi astengo", lo faccia in omaggio al governo o all'opposizione, si comporta in maniera deprecabile. Stefano Bartezzaghi
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