GLI ANTIEROI DELLA GUERRA NELLO ZAINO DEL SOLDATO RYAN

GLI ANTIEROI DELLA GUERRA NELLO ZAINO DEL SOLDATO RYAN GLI ANTIEROI DELLA GUERRA NELLO ZAINO DEL SOLDATO RYAN Dai romanzi di Grane a Hemingway, da Faulkner a Mailer .utouv '.Manin I -gfiqisbmio IfiU&'iJiifiVfsi) a • Y .'- MA 1 RA i numerosi filoni che gli Stati Uniti sono riusciti a reinventare in chiave moderna, emerge senz'altro il romanzo di guerra. Un sottogenere nel quale gli americani riescono con molta disinvoltura a spostarsi dall'epopea eroica alla realtà spicciola e quotidiana, dagli affreschi imponenti delle grandi guerre alle miniature più o meno di maniera dei piccoli uomini, dalla «nobiltà» dell'ideale alla «miseria» del sopravvivere. In questa direzione s'era già mosso, più di un secolo fa, uno scrittore ormai classico, Stephen Grane, con II segno rosso del coraggio: uno studio sulla paura ( 1895, tradotto nel lontano 1947 da Bruno Fonzi per l'editore Jandi Sapi). Un volumetto ambientato ai tempi della Guerra Civile tra Nordisti e Sudisti e imperniato sulla figura di un giovane entusiasta e sprovveduto che di colpo si scopre vigliacco e poi, altrettanto rapidamente, si trasforma in eroe, non tanto per scelta o per coscienza, quanto in virtù di una serie di crisi e di raptus che meriterebbero uno studio psicanalitico. Giornalista e scrittore, Crane fu forse il primo a com¬ prendere che non esiste nulla di più visceralmente antieroico della guerra. Una lezione ripresa in seguito, con ripensamenti virtuosi e tentazioni vagamente sentimentalistiche, da altri grandi narratori: l'Hemingway di Addio elle armi (1929), l'Irwin Shaw di I giovani leoni (1948), il Norman Mailer di II nudo e il morto (1948) e persino il William Faulkner di La paga del soldato (1926), che racconta l'infelice ritorno a casa di un reduce della Grande Guerra dato per ucciso e della sua dolorosa morte civile in un Sud che gli eroi li vuole al fronte e non all'ufficio di collocamento. Occorre tuttavia giungere agli ultimi decenni del nostro secolo, perché l'esperienza bellica si spogli radicalmente dei suoi risvolti romantici e passionali, disperda ogni alone poetico e mistico e, da semplice esperienza solo a parole eroica, si proponga agli americani come atto «ingiusto» o addirittura «sporco» e, comunque intimamente indecifrabile; sfociando persino, in taluni casi, in un tentativo di riscrittura della storia dalla parte dei vinti anziché da quella dei vincitori. Un cambio di prospettiva in cui, una volta ancora, William Faulkner aveva svolto un importante ruolo anticipatorio, contrapponendo nei suoi affreschi l'epica eroica di un Sud sconfitto allo squallore di un Nord vincente ma miserabile. Questo nuovo punto di vista si estende a macchia d'olio. Si pensi ai molti libri (e film) che rifiutano e ribaltano i miti più abusati delle guerre tra bianchi e indiani, rivedendo in chiave critica figure come Custer, Davy Crockett o Buffalo Bill e, più in generale, riesaminando il rapporto tra «buoni» e «cattivi». Una riscrittura che vanta precedenti ottocenteschi (a cominciare da L'uUimo dei Mohicani, 1826, e dagli altri romanzi di J. F. Cooper, o da Gli Yemassee, 1835, del suo collega sudista W. G. Sinuns, manifesto esemplare dell'ineluttabilità, ma non della giustizia, dello sterminio dei nativi del Nuovo Mondo). In seguito, tale riscrittura si misura, dapprima pavidamente, con la guerra in Corea e quindi, in maniera più crudamente critica, con la guerra in Vietnam. Una «moda» ini¬ ziata per il grande pubblico con lo shock di Platoon e oggi placidamente acquisita; come dimostra il numero sempre maggiore di diari, cronache, autobiografie e romanzi (alcuni dei quali firmati da ex nemici) dedicati al primo evento bellico dal quale l'America esce sconfitta. E ricordiamo qui, tra i molti citabili, The Sorrow ofWar («Il dolore della guerra», 1994) di Ninh Bao, When Heaven and Earth Changed Place («Quando Cielo e Terra si scambiarono di posto», 1990) di Le Ly Hayslip, Chickenhawk («Falco pollastro», 1984) di Robert Mason e, ovviamente, Born on the Fourth ofJuly («Nato il 4 luglio», '90) di Ron Kovic, poi portato sullo schermo con stt^orchnario successo. Ma a questa spietata marea revisionistica la Seconda guerra mondiale sembrava fino ad ora essere riuscita a sottrarsi. Forse proprio per questo, dunque, Salvate il soldato Eyan (di cui esce in Italia, in simultanea con il film, la versione narrativa, tratta, com'è ormai con- suetudine un po' triste, dalla sceneggiatura originale e realizzata da Max Allan Collins: Mondadori, 251 pagg., 27.000 lire) suscita oggi tanto clamore e tanto interesse. Anche per l'ultimo conflitto mondiale pare insomma giunto il momento di attenuare la voce degli storici per accentuare quella dei protagonisti, di rinunciare a prò- porre i «momenti di gloria» per presentare invece i soldati semplici, mandati allo sbaraglio senza aver frequentato le accademie militari e i campi di addestramento dei marines. Individui comuni, a volte egocentrici e pavidi e tuttavia capaci di crudeltà e di vendetta, anelanti in primo luogo a non lasciar la pelle in azioni di cui colgono il senso solo alla lontana, assorti come sono in un rapporto personale con la guerra che impedisce loro ogni comprensione del quadro tattico/strategico delle operazioni belliche, soprattutto quando si trovano con il viso immerso nella melma della battigiasotto il tiro incrociato delle armi nemiche o si tolgono il paracadute entro un mucchio di letame, ringraziando Dio di averli fatti atterrare sul morbido, sul caldo e sul provvisoriamente sicuro. D-Day, il volume curato da Stephen E. Ambrose, lo storico scelto da Spielberg come consulente per la sua produzione, è, al riguardo, una fonte inesauribile di notizie e di materiali. Grazie ad Ambrose, un docente dell'Università di New Orleans che ha studiato oltre 1400 testimonianze dirette di veterani e di ex combattenti, raccolte dallo Eisenhower Centre, l'epico sbarco in Normandia viene in larga misura ricondotto a coordinate più concrete e meno retoriche al cui interno è più facile capire come chiunque, in certe condizioni, possa trasformarsi, come in II segno rosso del coraggio o in Salvate il soldato Ryan, da eroe in vigliacco o viceversa. Coorti dinate confuse, a tratti anche grottesche o quasi comiche, vissute o rivissute con il disincanto un po' cinico e un po' stupito di chi, anche a distanza di tempo, stenta a percepire il significato ultimo di quanto gli è successo; e tuttavia indispensabili a dare un qualche senso a quanto, nel momento in cui avveniva, pareva frutto di un progetto arbitrario noto solo agli dei e a generali non sempre competenti. Il mitico e grandioso D-Day celebrato in mille romanzi e in nulle film appare in queste pagine, in queste piccole memorie personali, qualcosa di simile a un appuntamento cieco col destino, capace di giustificare a posteriori deliri eroici e sbracatezze popolane. Come, ad altro livello e con più modeste pretese, in Arrivano! Sie kommen! di Paul Carell (Rizzoli, pp. 363. L. 12.900), clie sullo sbarco in Normandia ritorna dal punto di vista spaesato, frustrato e infine atterrito (ma, in certi momenti, altrettanto profondamente umano, come in taluni episodi emblematici di Salvate il soldato Ryan) dei militi tedeschi di stanza in Francia il giorno dell'approdo. 6 giugno 1944. Un giorno che ha (ambiato D mondo. Ma anche un giorno diverso da tutti gli altri per migliaia e migliaia di uomini senza volto, partiti per il fronte tra ignare folle plaudenti, ignari a propria volta del loro futuro, cantando accorate canzoni d'addio in cento lingue diverse. Ruggero Bianchi // «filone» bellico nella narrativa americana, dal conflitto civile a quello mondiale, dopo «l'autocritica» di Corea e Vietnam Con il film di Spielberg arrivano in libreria le dure testimonianze di vincitori e vinti: la paura e la viltà più forti degli ideali A destra: una foto dello sbarco in Normandia. Sotto: Steven Spielberg Accanto al titolo: il soldato Ryan interpretato da Tom Hanks ni M ijj ulisauo ul "d .J.M D-DAY Stephen E. Ambrose Rizzoli pp. 638 L 35.000

Luoghi citati: America, Corea, Francia, Italia, Normandia, Stati Uniti, Vietnam