Bernabè: sono un seguace di Sun Tzu

Bernabè: sono un seguace di Sun Tzu INTERVISTA COME Si COSTRUISCE UN LEADER Le sfide passate, l'analisi del presente e le prospettive per il futuro in questo colloquio Bernabè: sono un seguace di Sun Tzu 7/ manager alla vigilia del salto dall'Eni alla Telecom ■ travagli dell'Eni tra il 1992 I e il 1995 sono stati paragoni nati a un vero terremoto... «Nel 1992 l'obiettivo era liberare l'Eni dal pantano della politica e della corruzione. (...) Non ho mai perso la speranza. Sapevo che l'Eni aveva punti di forza ohe sarebbe stato possibile far valere. E avevo le motivazioni per dare battaglia. Non ne potevo più dell'interferenza politica che stava distruggendo l'azienda e avrebbe distrutto l'Italia. Uno spettacolo d'ingiustizia intollerabile, a mio avviso. La mia motivazione era fondamentalmente di carattere etico. L'85 per cento dei dipendenti pagava lo scotto della cattiva condotta di un 15 per cento responsabile di corruzione e abusi politici. Io avevo il dovere di porre riparo a quella ingiustizia. Ci sono stati momenti di tensione insostenibile. Quello peggiore, forse, è stato quando sono stato accusato di aver intascato una tangente. La notizia è stata data alla televisione e i miei figli, che quella sera erano davanti al teleschermo, sono rimasti senza fiato. Io mi sentivo sull'orlo di un crollo nervoso. Era un'aggressione di una violenza inaudita. Se c'è una cosa alla quale ho attribuito la massima importanza nella mia vita, questa è la mia integrità, e invece qualcuno dal teleschermo mi accusava: "Bernabé ha preso una tangente di 5 milioni di dollari". Ricordo di essere uscito a fare quattro passi. Tornato a casa, ho detto: "E' proprio questo tipo di aggressione che mi ha spinto a scendere in campo e giuro che d'ora in poi combatterò con determinazione anche maggiore. E se quelli pensano che toglierò il disturbo, si sbagliano. Prima di essere finito, mi lascerò dietro tutti quelli che credono di poter controllare l'Eni con la politica, le chiacchiere e le menzogne". Ero molto determinato, deciso a tutto. E guerra è stata». Quando l'Eni era in difficoltà, lei ha avuto il tempo di riflettere sulle sue responsabilità di leader? «Se ogni mattina mi reco a piedi in azienda, è proprio per concedermi una mezz'ora extra per pensare. Il pensiero strategico è una delle qualità decisive di un leader: deve essere in grado di analizzare ogni problema a 360 gradi. Deve essere consapevole dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, così come di quelle dell'organizzazione che dirige, degli avversari e dei sostenitori. Questi ultimi, non di rado prendono il volo quando le acque si fanno agitate: chi è che si schiera al tuo fianco quando non è sicuro di essere dalla parte del vincente? Così sei solo con i problemi, che è poi la cosa migliore. Shimon Peres, un leader per il quale nutro profondo rispetto, mi ha detto una volta che uno sa di essere leader nel momento in cui si rende conto che non c'è nessuno in grado di rispondere alle sue domande, e che tocca a lui e a lui solo trovare le risposte. (...) E' impossibile gestire una grande organizzazione in modo superficiale. Un leader non può fare la media ponderata delle opinioni altrui e poi appropriarsene. Un leader deve organizzare le informazioni di cui dispone, analizzarle, prendere le decisioni del caso, e quindi passare al problema successivo. E' con questo sistema che abbiamo portato l'Eni oltre la crisi». Lei ha esordito come accademico. «Sì, per diversi anni mi sono dedicato alla teoria economica. Nel 1976 mi sono trasferito in Francia, ero all'Ocse come economista. Lì ho imparato ad analizzare i problemi, a entrare nei dettagli, a razionalizzare questioni complesse inserendole in un contesto preciso. Ma dopo tre anni mordevo il freno: temevo di diventare un alto burocrate. Quando nel 1978 s'è presentata l'opportunità di entrare come manager economista alla Fiat, non me la sono lasciata scappare. Guardando a ritroso, mi rendo oggi conto di quanto sia stata importante quell'esperienza. In Italia c'era il terrorismo, e forte tensione sociale. Nelle fabbriche la conflittualità era altissima. Come gli altri ma- nager, anche io ero oggetto di minacce. Ho imparato ad affrontare concretamente il conflitto, e complessi problemi socio-politici e di lavoro. E' stato allora che mi sono reso conto di come i leader possano fare la differenza. In quegli anni, la gente era convinta che in Italia il caos avrebbe sconfitto l'impresa. Ma, a misura che il processo della ristrutturazione della Fiat faceva il suo corso e che le tensioni si affievolivano, mi sono accorto ancora una volta che il mio lavoro cominciava a somigliare pericolosamente a quello di un burocrate: ripetitivo ed eccessivamente specializzato. Nel 1983, Franco Reviglio, che era stato il mio mentore all'università di Torino, venne nominato presidente dell'Eni, e mi chiese di lavorare al suo fianco come assistente». Come sono stati i primi anni all'Eni? «L'azienda era afflitta da un portafoglio eccessivamente diversificato, avevamo una montagna di debiti, una struttura di costi insostenibili, ed eravamo gestiti dal governo. Io stilavo per Reviglio dei promemoria in cui spiegavo i problemi, suggerendo cosa fare per risolverli. Trascorrevo dunque buona parte del mio tempo studiando, e parlando con le persone. Un lavoro solitario, ma ho scoperto che l'azienda era piena di manager, ingegneri ed esperti tecnici degni di stare alla Nasa. Bisognava rendere l'Eni un'azienda orientata al mercato. Ma il comitato direttivo non la pensava così, e dopo meno di un anno, chiese con insistenza la mia rimozione dall'incarico. Sono finito sepolto nel dipartimento pianificazione». Negli anni successivi, lei ha elaborato una strategia di privatizzazione. Qualcuno le ha dato retta? «Nel 1985 ho convinto Reviglio: l'Eni non avrebbe più preso danaro dal governo per coprire le sue perdite. Un passo importante per liberarsi dalle interferenze politi- che. Nel 1986, se ne andò il responsabile della pianificazione, e Reviglio mi offrì l'incarico. Avrei avuto una visione più ampia dei problemi, in tutti i settori dell'azienda: alla fine, conoscevo le varie società operative come il palmo della mano. Agli inizi degli Anni Novanta, mi è stato affidato il compito di valutare le implicazioni legate alla trasformazione dell'Eni in società per azioni». E il consiglio di amministrazione ha cercato di silurarla ancora una volta... «Esatto». Il potere lei lo ha conquistato nell'agosto del 1992: Revi • glio lasciò il suo incarico, e Giuliano Amato la nominò amministratore delegato dell'Eni. Lei avrebbe dovuto gestirlo assieme al presidente, ma di fatto ne ha assunto il controllo. «Io non volevo compromessi: volevo raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato. Scrissi una direttiva, e la inviai a tutta l'azienda, compreso il presidente. Fu un fulmine a ciel sereno. La strategia della sorpresa dà i suoi risultati, perché i tempi spesso sono decisivi. Quando c'è un'opportunità, non bisogna lasciarsela scappare. Jo non ho avuto esitazioni. Ero pronto, erano quasi 10 anni che studiavo l'Eni, e sapevo che l'azienda disponeva delle competenze e t'elle capacità professio- nali necessarie. Era solo questione di portarle al vertice dell'azienda. Ho incontrato uno per uno tutti i dirigenti: erano stupiti dalla mia disponibilità e dall'attenzione con la q\iale ascoltavo le loro opinioni. Ma la realtà mi appariva in tutta la sua durezza: l'Eni aveva la mentalità tipica del pubblico servizio. Ho cominciato a spostare i dirigenti. C'era chi mi considerava un pazzo. Erano in pochissimi a credere che sarei rimasto in sella, per cui, oltre ad ignorare le mie richieste, molti combattevano contro di me, contro la privatizzazione, contro tutto!». E nel bel mezzo, esplode Mani pulite: sotto accusa ci sono una quindicina di dirigenti, anche il presidente. «E' iniziata la catastrofe. 1 dipendenti volevano sentirsi dire che si trattava di un errore. Io sapevo che questo avrebbe risollevato il morale, e facilitato le cose. Ho fatto la scelta opposta: ho chiesto a tutti quelli che erano stati accusati di dimettersi. Il processo di ricostruzione doveva ricominciare da zero. Era una decisione oltremodo difficile. In meno di due mesi, ho sostituito più di 250 dirigenti. Ho spiegalo ai dipendenti ciò che stavo facendo, volevo si rendessero conto che i cambiamenti rientravano nella logica di trasformazione dell'Italia in un Paese moderno. (...) Per sostituire i dimissionari, ho esaminato centinaia di curriculum di dipendenti. Consulenti e banche mi avevano suggerito di cercare all'esterno, ma io ero convinto che in azienda vi fossero persone di talento: la scelta ò stata operata in base all'esperienza e alle prestazioni dei singoli». Era calmo nei momenti di difficoltà? «Direi di sì. Ero stanco, certo, e talvolta preoccupato. Ma se avessi ceduto alle emozioni non avrei fatto il bene di nessuno. Ciò non significa ignorare gli altri, non prestare ascolto ai loro sentimenti. Quando si ha bisogno che gli altri capiscano il nostro punto di vista, e che si schierino al nostro fianco in battaglia, bisogna capirne le motivazioni, stando però bene attenti a non lasciarsi condizionare dalle loro emozioni. Bisogna anche saper lavorare in soUtudme. Maggiori sono le responsabilità, maggiore è il bisogno di essere soli». Cos'altro ha contribuito al successo con cui ha guidato la riconversione dell'Eni? «La consapevolezza della direzione strategica da seguire, innanzitutto. Nel nostro caso l'obiettivo era chiarissimo: volevamo privatizzare l'azienda. E la progettazione minuziosamente dettagliata ha dato il suo contributo: i progetti ci spingevano avanti anche quando avevamo la sensazione di essere bloccati. C'è un momento in cui si ha l'impressione che nulla venga fatto perché le cose da fare sono troppe. Momenti in cui ci si sente sopraffatti dalla complessità del compito che si ha davanti. Ma a volte, per iniziare un grande cambiamento, non resta che cominciare mettendo un piede davanti all'altro.(...) Quando penso a un grande leader, penso a ciò che fece Franklin Roosevelt nel marzo del 1941, quando andò davanti al Congresso a perorare la causa della Gran Bretagna entrata in guerra contro i nazisti. Molti americani erano contrari, ed egli ricordò loro che nessuno si sognerebbe di farsi ripagare dal vicino l'estintore usato per spegnere l'incendio della sua casa. (...) Quanto alla strategia, ho appena finito di leggere L'arte della guerra, il testo scritto circa 2500 anni fa dal generale cinese Sun Tzu. Ma il più grande libro che sia mai stato scritto sulla leadership è per me Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Adriano è stato uno dei più grandi imperatori romani perché è stato capace di capire la natura umana, e tirar fuori il meglio da ognuno. E la leadership è proprio questo». Linda Hi» Suzy Wetlaufer IL GENERALE CINESE «Ho appena finito di leggere l'Arte della guerra Il mio modello di strategia ha 2500 anni...» L'IMPERATORE «Adriano è stato il migliore perché sapeva tirare ruori.il meglio di ognuno: questa è la leadership» IL MAESTRO «Temevo una fine da alto burocrate Ma Franco Reviglio mio mentore all'Università mi chiamò all'Eni» M Un capo deve analizzare ogni problema a 360gradi Deve essere consapevole dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, di quelle di avversari e sostenitori y ip 66 Quando serve che gli altri si schierino al nostro fianco, bisogna capirne le motivazioni, senza farsi condizionare dalle loro emozioni sjej Mi Mi consideravano un pazzo: in pochi credevano che sarei rimasto in sella Ipiù combattevano contro di memm 66 Quando serve che gli altri si schierino al nostro fianco, bisogna capirne le motivazioni, senza farsi condizionare dalle loro emozioni sjej M Un capo deve analizzare ogni problema a 360gradi Deve essere consapevole dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, di quelle di avversari e sostenitori y ip Franco Reviglio L'IMPERATO«Adriano è stail migliore percsapeva tirruori.il megdi ognuno: queè la leadersh Mi Mi consideravano un pazzo: in pochi credevano che sarei rimasto in sella Ipiù combattevano contro di memm Franco Reviglio MargueriteYourcer CHI E' SUN TZU Teorico dell'arte militare cinese, vissuto nel sesto secolo avanti Cristo, cui è attribuito il più antico trattato cinése di arte militare, dal titolo «Sun-Tzu Ping-Fa». Il suo interesse consiste nel fatto che studia, oltre agli aspetti tecnici della strategia, anche quelli politici e psicologici dello stato di guerra. CHI E' ADRIANO Imperatore romano nato nel 76 d.C. e morto nel 138, ha regnato dal 117. Spirito versatile e sensibile a ogni forma di cultura, si dedicò agli studi letterari, artistici e filosofici ma mostrò anche eccellenti doti militari. Rappresenta la perfetta fusione della civiltà greca con quella romana. E' il protagonista del romanzo di Marguerite Yourcenar «Memorie di Adriano». In questa intervista realizzata da Linda Hill e Suzy Wetlaufer, della Harvard Business School, che sarà pubblicata integralmente sul prossimo numero di Aspenia (la rivista dell'Aspen Institute Italia diretta da Antonella Rampino) Franco Bernabò ripercorre gli anni del diffìcile risanamento dell'Eni. E tratteggia l'anatomia di una leadership: la stessa ci 'e andrà alla guida della Telecom.

Luoghi citati: Francia, Gran Bretagna, Italia, Torino