Le irresistibili sconfitte del Raìss

Le irresistibili sconfitte del Raìss Le irresistibili sconfitte del Raìss Come trasformare una ritirata in una mezza vittoria UN MAESTRO DEL BLUFF LA domanda che tutti si fanno, a questo punto, è: ma chi è Saddam Hussein? Risposta: un arabo. Niente affatto stupido, senz'altro poco raccomandabile e innanzitutto un uomo di apparato. Un dittatore cinico come tutti i dittatori, un difensore di se stesso tanto implacabile da riuscire a uccidere, anche con le proprie mani, parenti magari serpenti, amici d'infanzia,' collaboratori devoti, senza batter ciglio. Non si fida di nessuno, Saddam, neanche dei suoi due figliuoli; non si capisce bene se sia un vero musulmano praticante (come volle apparire durante la guerra del Golfo) ovvero un blasfemo manipolatore del Corano. L'ambiguità è la sua forza; il coraggio fisico la risorsa che l'ha sempre accompagnato. Raccontano che sia stato allevato da uno zio generale, poiché orfano di padre; si vuole che sia stato cacciato di scuola perché pretendeva di andare a lezione armato di pistola (come non pochi adolescenti americani, del resto), si sa che, giovanissimo, è entrato nel Baas (Rinascita), quel partito arabo fondato nella prima metà dei Quaranta da Michel Aflak e Salah el Bitar, che si definisce socialista-nazionalista, al potere dal 1963 in Iraq e in Siria ancorché con due correnti diverse frutto di una drammatica scissione. Nel '58 il militante Saddam viene arrestato dalla polizia di Kassem, il generale che nel luglio di quell'anno ha preso il potere massacrando la famiglia reale hascemita. Riesce a evadere strozzando un secondino, al quale raccontano - caverà un occhio «per ricordo». Un anno dopo partecipa a un attentato (fallito) contro Kassem. Ferito a un piede ripara in una casa amica: chiede un bicchier d'acqua, un coltello, una stearica. Alla fiamma della candela sterilizza la lama e si cava un proiettile dal piede destro. Se lo fascia, si traveste da donna e fugge. Traversato a nuoto il Tigri, secondo la vulgata, riparerà in Egitto. Tornato in patria nel 1963, brucerà un po' tutti, amici e nemici, parenti e serpenti, diventando il raiss politico, militare, ideologico: il dittatore-padrone dell'Iraq il 16 di luglio del 1979. Quand'era ancora vice-presidente e pupillo di Hassan al Bakr (costretto, poi, alle dimissioni) ebbi modo di incontrarlo. In quel tempo Saddam era magro e sofisticato, indossava un burnus lungo sino ai piedi, nero. Mi colpì il suo inglese, mi stupì il panegirico ch'egli fece di Michel Aflak. (Forse l'unica persona al mondo alla quale abbia voluto veramente bene). Debbo a Saddam, proprio a lui, un incontro memorabile con Aflak, cristiano convertitosi all'islam, la cui voce in falsetto disegnava scenari di pace: «Nel Duemila, un giorno, palestinesi arabi e palestinesi ebrei vivranno pacificamente gli uni accanto agli altri; quel giorno il colonialismo sarà morto per sempre». Non ho avuto modo di verificare se Saddam concordasse con la profezia del suo Maestro, poiché l'intervista che mi promise da vice, da presidente me l'ha sempre rifiutata. Da quel (lontano) lungo colloquio diremo ideologico con Saddam, trassi l'impressione che egli fosse un uomo piuttosto preparato, sicuro, gentile, evidentemente innamorato di se stesso. Parlava di Arafat con distacco, della causa palestinese senza passione, mostrava rispetto verso gli Stati Uniti ai quali, però, rimproverava «il rifiuto di studiare la storia e la filosofia degli altri popoli». Ma lui, Saddam, s'è mai preoccupato di studiare la storia degli Stati Uniti? Se lo avesse fatto, non credo che avrebbe invaso il Kuwait. Epperò, a ben pensarci, egli certamente sa, proprio dalla Storia, che agli Stati Uniti le guerre ripugnano: non fosse altro perché considerano «sacro» ogni soldato e magari perché formare un marine, un pilota costa tantissimi dollari. Questo giuocare col fuoco (non è la prima volta che ci scherza dalla fine della guerra del Golfo) se lo può permettere, Saddam, perché sa, appunto, che senza un motivo valido Washington non attaccherebbe mai. Ma perché esercita uno sport tanto periglioso? Se osassimo credere che egli ami il suo popolo, potremmo affermare che Saddam sfida la morte per denunciare un embargo invero spietato che non tange il dittatore e tutta la nomenklatura ma colpisce la piccola gente. L'embargo uccide ogni giorno 250 iracheni: bambini, anziani in primo luogo. Muoiono per la mancanza di medicinali di base, muoiono anche di fame giacché i poveri sono poveri davvero nell'Iraq regredito da paese postindustriale a paese di magra agricoltura: i ricchi, infatti, son diventati, persino a Baghdad, più ricchi. E sono loro, paradossalmente, a odiare il dittatore che li fa ingrassare, mentre la povera gente non ama senz'altro Saddam, tuttavia gli crede. Gli crede quand'egli afferma che l'Occidente cristiano, satei- lite degli Usa, vuol distruggere l'Iraq, il mondo arabo intero, «affinché Israele trionfi». Gli crede perché il suo linguaggio, per noi persino ridicolo, tocca la mente e il cuore dei più sprovveduti. Un esempio: che Saddam abbia perduto nella guerra del Golfo non si discute. Ma il dittatore è riuscito a trasformare una disfatta in una vittoria. «Che Saddam vinca o perda la guerra, in ogni caso gli arabi ne usciranno vincitori: avranno vinto finalmente la paura dell'Occidente onnipotente», scrisse nel '91 l'algerino El Mujhiaid. E adesso, Radio Baghdad afferma che «una volta ancora la saggezza del nostro raiss ha umiliato la presunzione dei neocolonialisti, regalando al nobile popolo iracheno un'altra vittoria». Ecco un saggio perfetto di quella che si usa chiamare l'utopia politica araba. Una utopia (negativa) che non va ristretta alla unicità e neanche confinata nell'ambito regionale: essa, infatti, abbraccia l'insieme di quell'assemblaggio poderoso di uomini e paesi, di ricchezza e di miseria, che chiamiamo mondo arabo. L'utopia politica è motore e insieme riferimento di identificazione per 100 milioni di individui. Nello spazio di codesta utopia ogni contraddizione viene annullata. Sicché la vittoria e/o la sconfitta sono viste entrambe come parentesi della Storia. Saddam dice che bisogna ubbidire all'Onu, il che in fatto significa che l'Iraq ha ceduto. Ma Saddam dice altresì ai suoi cittadini preoccupati, pessimisti, disperati: «Avete vinto, siete vittoriosi». E questo perché «avete scelto la strada giusta». La strada giusta è appunto quella di rifugiarsi in una parentesi della Storia. Bukra, domani - tra tre anni o tra. mi secolo -, la parentesi cadrà e gli umiliati di oggi troveranno infine la grazia della vittoria. Stanotte, dunque, la luna veglierà il sonno non contemplerà la distruzione di Baghdad. Il Califfo al Mansur, il «valoroso figlio del deserto», fondatore di Baghdad nel 762 dopo Cristo, la chiamò Medinat es Salam: città della pace. Il neocaliffo, Saddam Hussein, «valoroso figlio di Takrit» (il villaggio natale al centro del triangolo sunnita: Baghdad, Mossul, Ramadi), l'ha ribattezzata più volte, fantasiosamente, a partire dal settembre del 1980 allorché, aiutato dalla Cia, sorretto dalla buona stampa americana, armato dal Pentagono, attaccò (improvvidamente) l'Iran di Khomemi «per difendere gli interessi occidentali», convinto di riproporre un blitz alla israeliana. Invece furono otto anni disperati che si conclusero nel segno del disastro socioeconomico e per l'Iraq e per l'Iran. (Kissinger aveva detto: «Nessuno dei due dovrà vincere, debbono finire entrambi in ginocchio»). Ma Saddam che durante la infausta campagna militare ha mascherato il suo inopinato ruolo di «gendarme di Washington» autopromuovendosi «combattente sunnita» (contro l'eresia sciita iraniana), con una abile campagna di mobilitazione psicologica instaura un esasperato culto della personalità: definisce la guerra vKadisiya Saddam» (dal nome della storica vittoria degli arabi sui persiani nel 636 d.C); riempie città e villaggi (perfino i [rari] cessi pubblici) di sue foto gigantesche, stronca brutalmente ogni accenno di fronda, bonifica l'esercito mandando a morte dozzine di generali e ministri, rinnova la sua guardia personale affidandola interamente a parenti e paesani: il cosiddetto «clan di Takrit». E presenta il conto: agli occidentali, agli arabi moderati. Il dittatore è infatti convinto d'essere uscito vincitore dal lungo conflitto con l'Iran, non fosse altro per aver costretto il vecchio imam Khomeini ad accettare il cessafuoco ordinato dall'Onu. E per aver cancellato quel «pericolo-Iran» che angustiava i paesi arabi moderati (Arabia Saudita in testa). Ma un po' tutti fanno orecchie da mercante. Le casse statali irachene sono vuote, la zona industriale di Bassora è allo sfascio, ci sono due milioni di soldati da accudire, il debito estero sfiora i 60 miliardi di dollari: 30 dei quali anticipati dall'Arabia Saudita e dal Kuwait. Certo, ditte occidentali senza scrupoli aiutano Saddam nella costruzione di un supercannone per il lancio a lunga gittata di testate chimiche e atomiche; certo egli si rifà la faccia con il mondo arabo militante, ospitando a Baghdad, nel maggio del 1990, un vertice svll'intifada (paraninfo dell'insano flirt di Arafat con Saddam); certo il raiss si riaccosta all'Urss cui deve la costruzione dell'esercito e dello Stato industriale, epperò tutto questo non gli basta. Ed eccolo scatenare una campagna mediatica contro il Kuwait accusato di rubare il petrolio (irakeno) di Rumailah (sull'incerto confine sabbioso tra i due paesi), e altresì accusato di complottare con l'Arabia Saudita per tener basso il prezzo del greggio in modo da danneggiare le esportazioni dell'I¬ raq, a tutto danno «del generoso popolo irakeno faro di civiltà, avanguardia della rinascita araba». Codesta campagna disturba, e non poco, il Kuwait e tutti i suoi (potenti) amici. (Va qui ricordato come il Kuwait sia un'immensa cassaforte colma di oro nero e di oro giallo; un paese-banca-finanziaria con alti investimenti in tutti gli angoli produttivi del mondo che conta). Ma Saddam per metter fine alla «campagna di diffamazione» chiede un po' troppo: l'intero pozzo di Rumailah, l'azzeramento del debito col Kuwait, la cessione di due isole kuwaitiane, piccole ma di grande valenza strategica, allo sbocco dello Shatt el Arab, il rialzo del greggio. La mediazione dell'Arabia Saudita e dell'Opec, con la prudente assistenza di Washington, «delude» Saddam che decide di marciare. Prima di farlo, tuttavia, ha un colloquio con l'ambasciatore americano a Baghdad, la Signora Aprii Glaspie. Dal quale ricava «la certezza» che gli Stati Uniti lasceranno ch'egli se la sbrogli coi suoi «fratelli». C'è una espressione araba: bos ilha che letteralmente significa «baciarsi sulle barbe»; in quest'ottica Saddam pensa che «tutto ritornerà fra di noi come se nulla fosse accaduto». Sicché nella notte del 2 di agosto del 1990 sfonda nel Kuwait. Ne segue un tragico balletto politico-militare che porterà alla epocale guerra del Golfo, alla famosa Desert Storm che nei programmi e nei proclami degli Stati Uniti (cui fa da coro una inimmaginabile coalizione araba che vede perfino Assad di Siria incartarsi nejjli Stati Uniti) dovrebbe concludersi con la fine del tiranno assirobabilonese, definito dal presidente Bush l'Hitler del Medio Oriente, e da Le Monde il ladrone di Baghdad. Non senza ipocrisia si disse allora che l'intervento americoarabo era dettato dal diritto internazionale. Che Saddam andava terribilmente punito per aver «stuprato un paese fratello». Ma il New York Times si chiese: «E se il Kuwait avesse prodotto broccoli?». A significare che l'Occidente non poteva tollerare che un «ladrone» gli scippasse un vero e proprio tesoro chiamato Kuwait. (Altro che diritto intemazionale). Ma ora, dopo questa ennesima sceneggiata ridicola eppur crudele, cosa accadrà? «La sopravvivenza di Saddam - ha scritto Robert Fisk -, deriva verosimilmente dal fatto che la sua ingenuità, spesso frutto dell'isolamento, è ampiamente compensata dalla immaturità della politica americana in Medio Oriente». Forse così come Saddam non tiene conto della complessità dell'Occidente, del pari gli S.U. sembrano incapaci di aver a che fare con il mondo musulmano se non in termini di «amici e nemici - moderati e radicali - terroristi e uomini di pace». Dovremo concludere che finché durerà una politica di pura potenza il futuro di Saddam non sarà compromesso? Allah'alam, Dio solo lo sa. Igor Man L'ambiguità è la sua forza, il coraggio fisico la virtù che ha accompagnato la sua scalata I poveri sono diventati ancora più poveri a causa dell'embargo ma continuano a credergli quando grida che l'Occidente vuole distruggerli | Manifestazione a Baghdad davanti all'Onu e il Segretario deile Nazioni Unite, Annan