«Apo, sei il nostro Arafat»
«Apo, sei il nostro Arafat» «Apo, sei il nostro Arafat» Tra i seguaci arrivati da tutta Europa ROMA. «Apo! Apo!». Sì, «zio» Ocalan, affacciati per cortesia alle finestre di questo strano ospedale blindato e saluta i tuoi fedelissimi che stanno qui, sotto la pioggia, a cantare le tue gesta. «Apo! Apo!». In verità gli slogan sono tanti, variopinti, anche truculenti. «Dente contro dente, polso contro polso, noi stiamo con Apo!». Ma all'orecchio italiano s'intende solo questa parolina che si appresta a entrare nel vocabolario politico di casa nostra. Perché Apo Ocalan - cioè zio Ocalan - ha deciso di venire a svernare qui in Italia dove ha tanti amici. Una decisione, questa richiesta di asilo politico all'Italia, che ha scatenato l'entusiasmo di sei-settecento profughi. Si sono precipitati a salutare il grande capo dall'Austria, dalla Svizzera, dalla Germania. Non parlano italiano. Hanno pochissimi soldi in tasca e non sanno dove dormiranno stanotte. Ma sono felici. «Spero tanto di vederlo», dice un piccoletto, Suleyman, 35 anni, baffoni spioventi e giacchetta di similpelle, scappato sei anni fa da casa sua e ora insediato stabilmente in Svizzera dove lavora nell'informatica. «Mi chiedi cosa è per me Ocalan? E' un uomo che ha dedicato la sua vita all'indipendenza del Kurdistan. Grazie a lui, ora tutti nel mondo conoscono la causa curda. Noi aiutiamo la sua lotta come possiamo». Ma perché Suleyman ha lasciato il Kurdistan? «Nel mio villaggio lavoravo in un ristorante. A un certo punto mi ricercavano. Sai, aiutavo i guerriglieri. Gli davo da mangiare. Li aiuto anche adesso. Invio una parte dei miei soldi al movimento». Gli slogan non sembrano cai- marsi. «Apo!». Chissà, magari Ocalan da dentro può sentire. «Anch'io spero di stringergli. la mano», dice un altro, Murat, 24 anni, sbarcato diciotto mesi fa in Italia da una nave di clandestini. Aveva presentato domanda di asilo politico. Respinta. Ora ha fatto ricorso «ma mi hanno detto che ci vogliono cinque anni per avere risposta. E io nel frattempo che faccio? Come vivo? Senza documenti non si può lavorare. In Italia, poi, lavoro non lo trovano nemmeno gli italiani. Mi sa che domani me ne vado in Germania con questi nuovi amici». Murat, perché sei scappato dal Kurdistan e sei finito a Roma? «Non lo so nemmeno io. Dalle nostre parti è così. A un certo punto ti incarcerano solo perché sei curdo. Io sono scappato, ma la mia famiglia è rimasta lì». Andiamo avanti. Come per incanto, sulla piazza del Colio, dove un tempo stavano le fidanzate dei soldati di leva ad aspettare l'ora della libera uscita, guardati da un velo di carabinieri scocciatissimi, sono comparse decine di bandiere rosse con un fregio verde e una stella d'oro al centro. Sono le bandiere del Pkk. «Le abbiamo portate noi da Vienna», dice orgoglioso Kamaran, 37 anni, faccia sbarbata di fresco e zainetto alla moda. Kamaran è un politico e si vede subito. Parla inglese e tedesco. Vive in Austria da sette anni. Viene dal Kurdistan iracheno, dove si sta sotto il tallone di Saddam. «Siamo scappati nel 1991 quando gli iracheni attaccarono con i gas i nostri villaggi. Passammo in Turchia e poi arrivammo in Europa». Anche Kamaran si è precipitato a Roma quando ha saputo, «Me l'hanno detto dal nostro ufficio Ernk di Vienna. Ci siamo messi in macchina e siamo arrivati. Ora siamo qui. Pronti a ogni azione per vedere Ocalan libero. Perché la nostra vita è dedicata al Kurdistan. Noi siamo vivi, ma dovremmo essere morti. E quindi la nostra vita non conta». Con lui c'è il suo amico Amhed. Stessa età, stessa storia, stessa aria ispirata. L'unica differenza è che uno si circonda il collo con ima kefiah e l'altro ha il loden. «Vedi - spiega faticosamente Amhed, metà in tedesco e metà in inglese - noi siamo contenti che Ocalan sia in Italia, che è una ve- Amhed vive a Vienna «Siamo contenti che sia a Roma Questo non è un Paese fascista come la Turchia o peggio l'Iraq» Un momento di tensione tra forze dell'ordine e manifestanti curdi davanti al Celio. Nella foto in alto, ancora la manifestazione al Celio
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