Diliberto, giustizia «normale» di Giovanni Bianconi

Diliberto, giustizia «normale» Il Guardasigilli segue le orme di D'Alema. Sarà Vladimiro Zagrebelsky il suo capo ufficio legislativo Diliberto, giustizia «normale» «Basta risse», il suo leitmotiv ROMA. Normalità. A voler riassumere in una parola il programma del governo D'Alema per la giustizia, quella giusta è proprio il sostantivo tanto caro e tanto usato dal nuovo premier. Un anno fa, nel libro La grande occasione, l'allora presidente della Bicamerale teorizzava «un'idea "normale" della giustizia, che garantisca i magistrati nella propria indipendenza e i cittadini nella sicurezza». E tre righe più avanti vagheggiava «una "giustizia normale", dove un procedimento avanza nel rispetto delle regole, un processo si svolge in tempi certi, un magistrato non ha j sogno di convocare la tv per difendere un'inchiesta scottante». Presentando il governo alla Camera D'Alema ha ribadito gli stessi concetti, senza usare la fatidica.parola, ma il suo ministro Guardasigilli, Oliviero Diliberto, nel primo intervento a Montecitorio ha esordito così: «Credo sia dovere di tutti provare a ricondurre i temi della giustizia all'interno di canali normali». Sembra proprio che parlino la stessa lingua, il premier cresciuto nel partito che fu di Togliatti e il ministro che del segretario generale del pei ha appeso il ritratto dietro la scrivania; un ministro «politico», dopo la lunga e contrastata parentesi dei «tecnici». Uno dei nodi più difficili che Massimo D'Alema ha dovuto sciogliere per formare il suo governo è stato il nome a cui assegnare il dicastero di via Arenula. C'è chi racconta che lui stesso abbia voluto tenere i ds fuori da quel ministero, per evitare una gestione diretta delle prevedibili polemiche sulla giustizia; una materia - scriveva ancora nel suo libro - che «era e potrebbe continuare ad essere la spina nel fianco della transizione italiana». L'atmosfera s'è riscaldata quasi subito, con la sentenza della Corte Costituzionale sull'articolo 513 che ha scatenato l'immediata protesta dei politici (con pochissime eccezioni, tra cui quella del diessino Folena). Ma il ministro Diliberto ha affrontato il primo ostacolo alla sua marnerà, molto dalemiana: non ha vinto né perso nessuno, ha detto; la Corte ha esercitato il suo potere che il Parlamento deve rispettare, ma al quale nessuno impedisce di fare altre leggi. Con l'aggiunta di un concetto che è già diventato una costante nei suoi interventi: basta con le risse da stadio. Ma quali sono le priorità del Guardasigilli per arrivare alla giustizia normale? «Piuttosto che di massimi sistemi - risponde Diliberto - io vorrei occuparmi di problemi concreti. A cominciare dalle 800.000 cause civili arretrate, che significano almeno un milione e seicentomila cittadini in attesa di giustizia». E' quella che il neo-ministro, alla commissione Giustizia del Senato, ha chiamato «la grande emergenza democratica». Poi c'è l'entrata in vigore del giudice unico, tra otto mesi, «e se non approntiamo i mezzi, una radicale depenalizzazione e la competenza penale ai giudici di pace, sarà una riforma nata morta». Questioni tecniche ma dai risvolti molto pratici, alle quali Diliberto affianca altre priorità che non tutti, anche nella sua stessa maggioranza, considerano troppo «normali»: l'accelerazione dei tempi per l'abolizione dell'ergastolo, «una misura di grande civiltà giuridica». Così dice il ministro della Giustizia, che avrebbe voluto al suo fianco, come capo di gabinetto, l'expresidente dell'Associazione nazionale magistrati Elena Paciotti, un giudice del quale Massimo D'Alema subisce il fascino intellettuale e ha grande rispetto: è una delle poche «toghe» che stima davvero, rivela chi ha discusso con lui di questi argomenti. Aver pensato a lei è un al- tro segnale dell'affinità tra il presidente del Consiglio e il suo Guardasigilli. A palazzo Chigi il premier non ha portato un consulente giuridico. Si affiderà ai canali istituzionali, e dunque al Guardasigilli e al ministro delle riforme istituzionali Giuliano Amato, senza dimenticare che il sottosegretario Bassanini è uno che mastica diritto da sempre. Dopo il gentile rifiuto della Paciotti, invece, Diliberto ha deciso di lasciare su quella poltrona strategica Loris D'Ambrosio, già braccio destro di Flick, scartando altri nomi che venivano consigliati dalla magistratura di sinistra, quella naturalmente a lui più vicina. Ma uno di questi, Franco Ippolito, è arrivato comunque nel suo staff, come direttore generale dell'organizzazione giudiziaria, al posto di Vladimiro Zagrebelsky chiamato al ministero da Flick e spostato da Diliberto alla direzione dell'ufficio legislativo. Scegliendo questa squadra, Diliberto ha dato un segnale di conti¬ nuità con i progetti dell'Ulivo, che un mese prima della caduta del governo Prodi erano stati riassunti in un nuovo documento programmatico sottoscritto anche da Rifondazione comunista. Ora quel pezzo di carta intitolato «Per la giustizia dei cittadini» è all'esame dell'Udr di Cossiga, per verificare se può essere una base di partenza per la nuova maggioranza. «Il documento può anche andar bene - avverte Roberto Manzione, deputato dell'Udr che si occupa di questi problemi -, ma resta il problema di come realizzare quelle scelte. Le sezioni stralcio volute da Flick per sfoltire il carico dei processi civili sono già un fallimento». Per il resto, gli obiettivi elencati dall'aumento delle risorse al giudice unico, alla parità tra accusa e difesa nel processo penale - appaiono talmente generici che difficilmente si troverà qualcuno contrario. «Ma l'Associazione magistrati non vuole l'aumento degli organici», annuncia Manzione. E Antonio Soda - deputato ds ed ex-magistrato, in passato ascoltato consigliere di D'Alema insorge: «Chi è contrario? La Corte costituzionale, con la sua assurda sentenza sul 513». Quel provvedimento ha avuto l'effetto di ricompattare il centrosinistra e il Polo in due inziative legislative uguali e contemporanee: due disegni di leggi presentati dagli opposti schieramenti che prevedono l'inserimento nella Costituzione dei principi sul «giusto processo» disegnati in Bicamerale nella «boz¬ za Boato» e una limitazione dei poteri esercitati dalla Consulta con le sue pronunce. Siamo dunque ai progetti di riforma comuni tra maggioranza e opposizione, che faranno storcere la bocca a molti giudici: lo scontro tra politici e «toghe» è sempre in agguato. E se Luigi Saraceni, neo-responsabile dei Verdi per la giustizia, prevede «un migliore rapporto tra governo e Parlamento nel suo insieme», il popolare Pietro Carotti mette altra carne al fuoco: la riforma dell'articolo 192 del codice di procedura penale, che dà valore di prova alle dichiarazioni dei pentiti. Il documento ulivista di settembre sorvolò su questo punto perché c'erano troppe divisioni. Ora anche i ds hanno fatto una loro proposta, ma i magistrati sono contrari a rivedere quella norma. «Le leggi le facciamo noi, loro devono limitarsi ad applicarle», ribatte ancora Carotti. E Cesare Salvi, capogruppo ds al Senato, conferma: «Noi ascoltiamo tutti, ma poi decidiamo autonomamente». Concetti «normali» ovunque, meno che nel Paese dove su questi temi è naufragato un progetto di riforma costituzionale: il problema di D'Alema e del suo Guardasigilli è tutto lì. Giovanni Bianconi «Più dei massimi sistemi, priorità ai problemi concreti, come le 800 mila cause arretrate» I PIANI DEL GOVERNO li ministro della Giustizia Oliviero Diliberto A sinistra: Vladimiro Zagrebelsky

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