Riparte l'eterna guerra dei sessi di Filippo Ceccarelli
Riparte l'eterna guerra dei sessi Come nel Pei, anche tra i Ds serpeggia il malcontento verso un partito «maschilista» Riparte l'eterna guerra dei sessi PROMA ARTITO maschile e lamentazioni femminili: non se ne esce. Gli uomini si assegnano il potere, al solito, e le donne subito lì a piangersi addosso. «Ogni volta - notava ieri Claudia Mancina, un po' rovinando la festa degli organigrammi veltroniani - bisogna fare una processione alla tribuna per denunciarlo. Evidentemente c'è qualcosa che non funziona». Eh, sì. Tanto non funziona, in effetti, e da tanto non funziona, oltretutto, che la sconsolata reazione di ieri sanziona addirittura un anniversario. Esattamente nel novembre del 1988, in vista della formazione del governo-ombra, le donne del Pei dicevano quello che dicono adesso le donne del Ds di un partito troppo maschile. «Non ci va bene come è attualmente organizzato - questa è una Livia Turco d'annata - perché non appare ancora chiaro che è un Pei formato da donne e da uomini. Noi proponiamo il riequilibrio della rappresentanza femminile». Anche allora l'obiettivo, tanto per dire come cambiano le cose in dieci anni, era di avere organismi dirigenti paritari al 50 per cento. L'unica differenza con il presente sembra stare nel tono, più baldanzoso, nel linguaggio, meno sofisticato, e nel fatto che nel frattempo il Pei è diventato Ds - anche se in un mesto reclamo dello scorso anno la Turco aveva già osservato che tutto sommato «era meglio il Pei». Ammissione anche ragionevole, nel senso che allora, anche sfidando i crudeli sonetti romaneschi di Trombadori («Hai visto mai che er verbo femminista / che donna chia- ma donna è un mezzo imbroijo / e eia fatto sbaijà puro la lista?»), le donne si presero certamente un bel po' di potere. Un 30 poi 40 poi 35 per cento negli organi dirigenti, ma soprattutto un sacco (64) di deputate e senatrici, con terribile mattanza di parlamentari maschi. Gli anni in cui Occhetto assegnava un «ruolo fondante» alle donne (dedicando 20 su 57 pagine nella relazione sulla svolta); e D'Alema, un po' scherzando e un po' no, sosteneva che «il maschilismo del partito è entrato in clandestinità». Una sera, da un'assemblea in una sezione di Milano, fu estromesso il compagno Ennio, giornalista dell'Unità incaricato di seguirla (che oltretutto di cognome faceva Elena). E tuttavia né la politica delle quote, né le ricorrenti minacce di fare un partito di donne (sempre contentandosi, in realtà, di rafforzare il ruolo di partito nel partito) spensero mai l'inquietudine di Turco, Buffo, Chiaronionte, Paolozzi, Zuffa, Carloni, Serafini, Bandoli, Pollastrini, Izzo e tutte le altre amazzoni che i compagni avevano ormai imparato a te¬ mere. Ma certo non ad amare. Né il pensiero della differenza (fatto inserire nello statuto e poi tolto), le periodiche bacchettate ai compagni che parlavano d'aborto, le variazioni terminologiche (tipo la ministra) sull'Unità e nemmeno le ricorrenti lusinghe dei maschi (Salvi, il giurista, se ne uscì con il «voto sessuato», con urne distinte a seconda dei generi), insomma, nulla riuscì mai a spegnere la guerra dei sessi dentro il vecchio, nuovo e nuovissimo partito. Bastava un congresso, un'elezione, un seminario a Pontignano, una ri¬ vista, una fondazione e le donne ripartivano - con prevedibilità tutta maschile - contro il partito misogino. E giù una squisita grana quantitativa, anche a costo di sentirsi dire da D'Alema: «In fondo, anche nelle assemblee della Confindustria le donne non sono più numerose di quelle invitate a Pontignano». Una guerra, se si vuole, a bassa intensità. Un po' rivendicazionista e un altro po' situata in una dimensione alta, ma sconosciuta e sperimentale della politica. Quando non sotterranea e in un caso forse anche larvatamente sororicida (se ne parlò a proposito dell'esclusione della Melandri dal governo Prodi). Ma alla lunga e dopo dieci anni forse si può dire - una guerra eccezionalmente ripetitiva, sterile e perfino noiosa. Per cui, ritornando all'oggi, e a quel sensatissimo «evidentemente c'è qualcosa che non va» pronunciato dalla Mancina si resta come minimo perplessi anche solo di fronte all'ipotesi di scovare il guasto nell'immensa mole di materiale-di solito tutt'altro che banale, a partire dai titoli - elaborato nel corso di un decennio: da «Stare da donne» (nel Pei) a «Emily» (Ds), passando per la «Carta d'identità delle donne», «Da pedine a regine» e perfino «X-files. Un, due, tre, stella: l'invenzione della politica». Forse la magagna neppure esiste in questi termini. «E non ce la possiamo prendere ha detto sempre Claudia Mancina - sempre con gli uomini». Un partito che non è più partito, oltretutto, ha cambiato anche sesso. Chissà che non sia il caso di asciugarsi il lacrimone. Filippo Ceccarelli Già dieci anni fa per il governo ombra l'obiettivo era ottenere cariche numericamente paritarie Sopra: il leader dei Democratici di sinistra Walter Veltroni Da sinistra: Livia Turco e Claudia Mancina
Luoghi citati: Milano
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