La Siria e 7 Paesi arabi; Saddam ripensaci di Andrea Di Robilant

La Siria e 7 Paesi arabi; Saddam ripensaci Annan non esclude una seconda missione, ma solo dopo una retromarcia di Baghdad La Siria e 7 Paesi arabi; Saddam ripensaci Aziz: in fondo al tunnel vediamo solo un altro tunnel WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Un Tareq Aziz sprezzante e a tratti collerico si è lanciato ieri in una requisitoria così dura contro gli Stati Uniti da lasciare ormai pochissime speranze per una soluzione diplomatica a questo ennesimo confronto con l'Iraq. Il ministro degli Esteri iracheno ha accusato «la nazione più arrogante del mondo» di voler bloccare a tutti i costi una revisione delle sanzioni imposte dall'Onu. «Per noi non c'è luce alla fine del tunnel. C'è solo un altro tunnel». Negli ambienti diplomatici l'uscita di Aziz viene vista come un tentativo in extremis di dividere la comunità internazionale spostando l'attenzione sulle sanzioni - un tema effettivamente controverso -. Ma a differenza dell'inverno scorso, il fronte antiSaddam appare molto più compatto. Il portavoce del Dipartimento di Stato James Rubin non ha lasciato passare un minuto dalla fine della conferenza stampa di Aziz a Baghdad per definirla «un tentativo disperato di addossare la colpa della crisi agli Stati Uniti. Ma è un tentativo che sta fallendo in maniera completa e totale». Aziz dovrebbe smetterla di fare «letture oscurantiste» delle risoluzioni Onu in diretta e annunciare semplicemente il ritorno alla piena collaborazione con gli ispettori dell'Onu, ha aggiunto Rubin. «E invece non c'è assolutamente nulla che faccia sperare in un ripensamento». La Casa Bianca ha sbandierato con evidente soddisfazione la dura presa di posizione dei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, dell'Egitto e della Siria contro l'Iraq, accusato senza mezzi termini di avere scatenato quésta crisi rinnegando gli impegni presi lo scorso inverno. «L'Iraq è chiamato a ritornare sulla sua'decisione di interrompere la cooperazione con la speciale Commissione dell'Onu incaricata del disarmo iracheno (Uncom)», hanno affermato i capi della diplomazia di sei paesi del Golfo, Egitto e Siria in un comunicato diffuso al termine di una riunione a Doha. Russia, Cina e altri rimangono contrari ad un intervento militare americano. E parecchio malumore è affiorato al Palazzo di ve¬ tro quando Richard Butler, capo dell'Unscom, ha deciso di richiamare tutti gli ispettori dall'Iraq dopo essersi consultato solo con gli americani e non con il segretario generale Kofi Annan. Ma tutti e quindici i Paesi del Consiglio di sicurezza questa volta sono d'accordo che Saddam Hussein se l'è cercata. E che a meno di una marcia indietro del raìss iracheno non c'è più spazio per una via d'uscita diplomatica. Ma ieri a Baghdad non è emerso alcun segnale di una possibile marcia indietro. Anzi, Aziz ha accusato la «gang» dell'Unscom di essere «una sussidiaria della Cia e del Mossad» e Richard Butler di essere una pedina in mano agli americani - non proprio le premesse per una ripresa del dialogo -. Il ministro degli Esteri iracheno ha poi cercato di guadagnare tempo ipotizzando un'altra missione di Annan a Baghdad. «Non sto corteggiando» il Segretario generale, ha detto. «Ma se dovesse venire sarebbe senz'altro benvenuto. E del resto ha l'obbligo morale e legale di trovare una soluzione». Annan ha fatto capire di non avere fretta di ripartire per Baghdad ma non ha escluso una sua missione. Ad una condizione: che non si tratti di una nuova mediazione, come lo scorso inverno. Il Segretario generale, insomma, sarebbe disposto ad andare a Baghdad solo dopo una chiara marcia indietro di Saddam Hussein. Ma ormai alla Casa Bianca sembrano aver perso la speranza in un ripensamento del raìss. Il presidente Clinton e il segretario di Stato Madeleine Albright han¬ no passato buona parte della giornata al telefono con i leader di Faesi alleati per illustrare gli ultimi sviluppi della crisi e raccogliere il massimo sostegno possibile ad un'azione militare. Il «build up» (spiegamento di forze) americano nel Golfo prosegue a ritmo accelerato. Ieri sono partiti altri bombardieri Bl, B52 e FI 17A - l'aereo «invisibile» mai usato in combattimento - che porteranno a circa trecento il numero degli aerei da combattimento nella regione. Un'imponente flotta navale dotata di trecento missili Cruise (Tomahawk) si trova già nel Golfo. E circa quattromila uomini sono in via di dispiegamento in Kuwait e Arabia Saudita per rafforzare le difese in quei due Paesi nell'eventualità di contr'attacco iracheno. Esperti militari assicurano che ci vorrà più di una settimana per completare il «build up» deciso dal Pentagono. L'obiettivo è quello di avere a disposizione una forza capace di sostenere per un periodo prolungato si parla di una-due settimane - un bombardamento dei bersagli in Iraq 24 ore su 24. Andrea di Robilant Il Pentagono muove i B-52 e gli «aerei invisibili» Pianifica due settimane di bombardamenti ventiquattr'ore su ventiquattro In Israele tornano le maschere antigas, simbolo delia guerra del Golfo