HABERMAS Grazie, compagno Kohl

HABERMAS Grazie, compagno Kohl Come sarà l'Europa socialdemocratica: parla l'ultimo filosofo della Scuola di Francoforte HABERMAS Grazie, compagno Kohl Era difficile pensare che l'ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl potesse aspettarsi di essere ringraziato dall'ultimo rappresentante della Scuola di Francoforte, Jùrgen Habermas. Ma è proprio ciò che è accaduto in un'intervista che il filosofo ha concesso all'autorevole Zeit, pubblicata in Italia dal mensile Reset nel numero che sarà in edicola alla fine di questa settimana. Habermas parla di Kohl come di un «compagno di generazione». D'altronde anche Vittorio Foa, leader storico della sinistra euro pea, si è dispiaciuto per l'uscita di scena del' cancelliere, in una recente intervista sull'Indice dei libri. Nel suo colloquio Habermas parla delle possibilità che in Europa si arrivi a superare l'orizzonte degli Stati nazionali per formare cittadini europei, che riconoscano l'autorità d'una costituzione europea. Anticipiamo un'ampia parte dell'intervista, nella traduzione di Laura Bocci. HELMUT Kohl è stato per lei sempre il garante dell'ancoraggio ad Occiden Ite della Repubblica Federale. Ora le mancherà? «Ormai tutte le critiche sono state già fatte. Il merito storico di Kohl è stato di ancorare la riunificazione tedesca all'unificazione europea. Quelli della mia età riconoscono in lui anche un compagno di generazione. Penso alla smentita, persino quasi fisica, di quel genere di estetica dello Stato che, soprattutto a partire dal 1989, hanno preteso le nostre menti elitarie. Kohl non ha evidentemente dimenticato la mostruosa messa in scena dei congressi del III Reich, né l'aspetto alla Chaplin dei nostri attori di Stato del nazionalsocialismo. Certo, ci siamo spesso lamentati del provincialismo e della mancanza di forma dei suoi gesti e delle sue parole. Ma con la deflazione delle vuote aspirazioni, con la trivializzazione della scena pubblica, Kohl mi è diventato persino simpatico. In questo si cela un pezzo di quella mentalità alternativa che, se ciò non suona troppo banale, la mia generazione ha perseguito. E forse qualcosa di essa siamo anche riusciti ad imporre, ad esempio contro quegli atteggiamenti intellettuali tedeschi di ipertrofica interiorità, di reticente pomposità e di forzata sublimazione. Kohl ha poi un merito suo malgrado. Il fallimento della sua "svolta spirituale e morale"ha funzionato come cartina di tornasole. Quando Kohl, dopo le prime fasi del suo governo, non è più riuscito a fare quello che voleva, a Verdun, a Bitburg e altrove, è diventato chiaro che il Paese era diventato più apertu e liberale. Una costante nella mentalità della vecchia Repubblica Federale era l'antica diffidenza alla Cari Schmitt contro i "nemici interni" di sinistra. Questa profondissima paura del sovversivo si scatenò anche nel clima da pogrom dell'autunno 1977. Kohl però non ha più potuto trarre benefici politici da questo stato di eccitazione generale». E ora ci sarà un governo rosso-verde. Si tratta soltanto di un cambiamento politico? Oppure anche di un cambio di chma culturale? «Quando, la sera delle elezioni, è diventata chiara l'entità senza precedenti della maggioranza dei voti di sinistra, molti di noi anziani si sono ricordati di un giorno della primavera del 1969. Allora Heinemann, dopo la sua elezione a Presidente della Repubblica Federale, parlò di un "parziale cambio di potere", un cambio di potere in favore di una coalizione social-liberale completato poco dopo da Willy Brandt con una esihssima maggioranza. A quel tempo, la fine lungamente procrastinata dell'era Adenauer trovò una convincente personificazione nell'integra personalità del suo avversario Heinemann. Dal punto di vista politico e morale avevo vissuto ì'e- poca precedente come un periodo avvelenato da una serie di fatali elementi di continuità sul piano personale ementale. Ma quella cesura era stata preparata da dieci anni di ostinata opposizione intellettuale, e poi da altri dieci anni di scontri violenti. La politica allora si limitò a prendere atto del rivolgimento in atto nel clima culturale. Oggi non è questo il caso. Qui da noi, da anni nulla è cambiato ni confuso e zoppicante clima culturale, neppure ad opera di quei quattro buontemponi che si divertono all'incrocio tra un neoliberismo dalle guance paffute e un postmodernismo in via di estinzione. Il turbamento per la frana di ieri, oggi è quasi dimenticato». Può esistere un vero e proprio progetto rosso-verde? Oppure, in considerazione dei ristretti spazi di azione politica, è soltanto possibile un maggior numero di «variazioni del centro»? «Un progetto rossoverde, è esistito fino alla fine degli Anni 80, e cioè fino a quando si contava sulla vittoria di Oskar Lafontaine alle successive elezioni al Bundestag. A causa dei vincoli determinati dalla realtà della riunificazione tedesca e dell'economia globalizzata, quel progetto si è poi ridimensionato delle parole d'ordine "modernizzazione e giustizia sociale", mitigato da una goccia di riforma fiscale in direzione ecologica - per non dire che si è ridimensionato in pure e semplici proposte finanziarie alternative. Di tutto ciò mi disturba ben poco il disincanto pragmatico, giacché tutta la prospettiva poggiava sulla falsa premessa che quella trasformazione sociale ed ecologica da lungo tempo per- seguita si sarebbe potuta avviare sul piano nazionale. Nel frattempo però una politica divenuta ampiamente difensiva ha dovuto adattarsi alle condizioni di uno scenario ormai mutato, in particolare in senso post-nazionale. Quel che mi disturba di più è l'assenza di una prospettiva nuova. Oggi tutti parlano di "epoca post-ideologica". Ma negli ultimi cinquanta anni, da The End of Ideology di Daniel Bell, questa parola d'ordine è stata evocata e poi smentita fin troppo spesso. Nella politica, nulla si muove senza un tema dominante, su cui le opinioni si dividono. E questo manca». Lei auspica uno scenario post-nazionale, i politici dovrebbero finalmente ampliare il proprio raggio di azione per ricostruire lo Stato sociale a Livello sovrannazionale. Questo tipo di impegno rappresenta dunque per lei l'unità di misura con cui valutare il successo politico di Gerhard Schroeder? «La mia prospettiva è esattamente questa. Essa mira al di là dei confini dell'Europa, ad una politica interna mondiale priva tuttavia di un governo mondiale. Ma per prima cosa si tratta di voler costruire un'Europa capace di svolgere un'azione politica. Dietro lo slogan di Waigel "L'Euro parla tedesco" si nasconde in realtà solo il giuramento di fedeltà ad una istituzione non politica, la Banca Centrale Europea. Gerhard Schroeder sa che con l'introduzione dell'Euro il problema dell'armonizzazione fiscale si inasprirà. Lo ha chiarito, dopo il voto, con l'esempio del prezzo della benzina. Mi sembra che si debba in pri¬ mo luogo lavorare ad una armonizzazione europea delle politiche sociali ed economiche, se non si vuole arrivare ad una corsa alla deregulation tra i sistemi sociopolitici degli Stati membri. D'altra parte, i comportamenti neocorporativi hanno i loro limiti. Le politiche di redistribuzione non possono semplicemente essere decise a Bruxelles, hanno bisogno di legittimazione democratica. Ma se vogliamo evitare un'ulteriore crescita delle disuguaglianze sociali nonché l'insorgere e la segmentazione di una popolazione povera, abbiamo davvero bisogno di uno Stato federale europeo capace di agire? Questa domanda è cruciale. Già ora assistiamo ad un mutamento di alleanze. Gli europei orientati al mercato e contenti dell'Euro si uniscono a coloro che finora erano euroscettici per irrigidirsi sullo status quo di un'Europa che si è unita soltanto grazie alla creazione dei mercati». In considerazione del fatto che praticamente non esistono istituzioni sovrannazionali che contino, non sarebbe forse più ragionevole utilizzare in prima istanza le possibilità dei singoli Paesi, invece di liquidare lo Stato nazionale? «Lo Stato nazionale è stato e sarà ancora a lungo il principale soggetto politico. Non sarebbe comunque possibile liquidarlo tanto in fretta. E d'altronde io ritengo molto positivo il fatto di avere ora un governo che si ritiene capace di tentare tutto il possibile, almeno in ambito nazionale, per servire la causa di una riforma. Non ho dubbi che le preoccupazioni che ora Schroeder vuole far sue, con proposte intelligenti e ricette ben note, avranno un certo successo. Ma questo non cambierà nulla nelle nuove forme di dipendenza dello Stato dalle condizioni così radicalmente mutate dell'economia mondiale. La domanda è se lo scenario post-nazionale non abbia bisogno anche di soggetti diversi, e più capaci di azioni politiche». Supponiamo che si venga a creare anche un'unione poli¬ tica. Chi dovrebbe controllarla? Si accontenterebbe di una democrazia in disarmo, priva di opinione pubblica critica? «No, io sono favorevole ad uno Stato europeo federale, e ciò significa che sono favorevole ad una Costituzione europea. D'altro canto simili istituzioni, che per il momento sono solo in fase di progetto, sarebbero le più adeguate ad avviare proprio quei progetti senza i quali esse stesse resterebbero prive di fondamenta. Una cultura politica comune non si può far nascere dal nulla; ed essa non spunta certo da sé, dai rapporti economici. Ma volere una Costituzione e un sistema europeo di partiti è del tutto legittimo. Da ciò, se riuscirà la costruzione di una opinione pubblica europea, potranno poi svilupparsi associazioni, iniziative e movimenti di cittadini, la cui efficacia si estenda al di là delle frontiere nazionali, vale a dire una società europea di cittadini». Si pone ora la domanda sul futuro della democrazia dei partiti, ancorata ad un'opinione pubblica per così dire intatta. Non stiamo forse vivendo in questi anni la lenta fine della democrazia dei partiti? I partiti sono in misura sempre minore il luogo della decisione e della politicizzazione della politica. Al tempo stesso si dissolvono anche quegli ambienti sociali che hanno fatto da collegamento con gli ambienti dei partiti. «I politologi hanno ben spiegato le tendenze in atto. Se si pensa alla ricerca sulla radio di Lazarsfeld dei primi Anni Quaranta, non si tratta di niente di nuovo. Però la personalizzazione orchestrata dai media, il contatto diretto dei politici di primo piano con il pubblico che guarda, rafforza notevolmente l'elemento plebiscitario e diminuisce il potere delle organizzazioni dei partiti. Poi le stesse public relations, tutte orientate verso l'esterno, possono mettere in ombra la comunicazione interna nelle organizzazioni partecipate, sempre che il lavoro di persuasione dei partiti non evapori in puro marketing. D'altra parte, bisogna osservare le nuove generazioni. La popolazione nel suo insieme è oggi più intelligente, comunque più istruita, meglio informata, per molti aspetti persino più interessata che nel passato. Se le forme della partecipazione politica mutano, ciò non deve essere necessariamente visto come un male. Se i partiti politici si statalizzano sempre più, svendendo contemporaneamente sempre più il loro lavoro, nella società civile possono sorgere movimenti di protesta. I Verdi hanno appena percorso a loro volta il cammino classico da movimento attivo nella società a partito. Tutto questo può cambiare. Altre iniziative rimangono allo stadio di organizzazioni alternative e a volte, come Greenpeace, hanno risonanza mondiale». Ammesso che la democrazia dei partiti si dissolva, non potrebbero non sorgere vecchie e nuove forme di partecipazione? Nascerebbero dei movimenti. «Non ci ho ancora pensato abbastanza. E del resto noi, qui in Europa, siamo ancora molto lontani dalla fine della democrazia dei partiti. I partiti continuano a scegliere il loro personale politico e a formarlo, proprio come hanno sempre fatto. Il grado di prolessionalizzazione dei nostri politici non è affatto scadente. Devono poterci sempre essere persone che si inseriscono dall'esterno, ma Dio ci guardi da figure ambigue come Berlusconi o Ross Perot che, per così dire, vengono fuori dal nulla». «Io sono favorevole a uno Stato federale e a una costituzione che superino i vecchi confini nazionali e formino la nuova opinione pubblica e nuovi cittadini» «L'ex cancelliere ha avuto il merito storico di ancorare l'unificazione tedesca a quella del continente» «La crisi dei partiti non è di per sé un pericolo: le forme della vita politica cambiano e gli elettori cercano modi diversi di partecipazione» AS Grazie, «L'ex cancellistorico di anctedesca a quehl a, leader storico della sinistra euro spiaciuto per l'uscita di scena del' in una recente intervista sull'Inbri. Nel suo colloquio Habermas possibilità che in Europa si arrivi a orizzonte degli Stati nazionali per ttadini europei, che riconoscano d'una costituzione europea. Anticiampia parte dell'intervista, nella di Laura Bocci. a avviare frattemnuta am dovuto i di uno n particoale. Quel l'assenza va. Oggi post-ideoinquanta eology di a d'ordine entita fin ica, nulla dominanvidono. E scenario itici do ampliadi azione to sociaazionale. gno rapr lei l'umo luogo lavorare ad una armonizzazione europea delle politiche sociali ed economiche, se non si vuole arrivare ad una corsa alla deregulation tra i sistemi sociopolitici degli Stati membri. D'altra parte, i comportamenti neocorporativi hanno i loro limiti. Le politiche di redistribuzione non possono semplicemente essere decise a Bruxelles, hanno bisogno di legittimazione democratica. Ma se vogliamo evitare un'ulteriore crescita delle disuguaglianze sociali nonché l'insorgere e la segmentazione di una popolazione povera, abbiamo davvero bisogno di uno Stato federale europeo capace di agire? Questa domanda è