FEDE E RAGIONE IN BILICO TRA SAN TOMMASO E HEGEL

FEDE E RAGIONE IN BILICO TRA SAN TOMMASO E HEGEL FEDE E RAGIONE IN BILICO TRA SAN TOMMASO E HEGEL L'ultima enciclica di Giovanni Paolo II ELLA Fenomenologia dello spirito, Hegel definisce la ragione come la certezza che ha la coscienza di essere l'intera realtà. Si tratta di una condizione immediata, priva di articolazione concettuale: a questo livello, la coscienza assume automaticamente che la realtà le «risponderà», che sarà possibile conoscerla e capirla. Lo scienziato empirico, per esempio, assume senza problemi che buchi neri e particelle elementari obbediscano a leggi «razionali» (tali dunque che la ragione possa riconoscerle) e si stupisce quando il loro comportamento appare bizzarro. In casi simili può capitargli (come a Einstein nei confronti della meccanica quantistica) di chiamare in causa Dio quale garante (metaforico?) di razionalità. Ma il progresso della coscienza non termina qui: il prossimo passo consiste nel mettere in discussione questa certezza, nel chiedersi come la coscienza, agendo in base a sue convinzioni ed esperienze, sia in grado di superare la «differen- h l dl d gza» che la separa dal mondo. La risposta di Hegel è ingegnosa ed edificante: quella differenza si risolve in un'identità (dialettica), la realtà si comporta in modo razionale perché, è la stessa cosa della ragione. Conoscere il mondo non equivale a scavalcare un baratro, ma a rispecchiarsi in una propria immagine. Elaborando queste conclusioni, la ragione diventa spirito. Oggi la ricetta hegeliana non è molto popolare; la sua diagnosi, però, è ancora valida. Quando si solleva la domanda sulla possibilità della conoscenza, la ragione entra in una crisi irreversibile e un suo uso «innocente» non è più legittimo. Comunque vada a finire, non si può ritornare alle origini: la pacifica certezza di un tempo è ormai fuori portata. Da Cartesio in poi, la filosofia occidentale si è dedicata alla ricerca di una nuova strda; nel secolo che sta per chiudersi, anche per le tragiche conseguenze di vari tentativi di razionalizzare la società, le aspettative si sono fatte sempre più modeste. Il pensiero è esangue, la ragione è un puro strumento, la conoscenza è fran¬ tumata in un'accozzaglia di programmi fra loro incompatibili. Fides et ratio, l'ultima enciclica di Giovanni Paolo II, si inserisce in questo dibattito. La sua retorica di superficie è tutta in favore di un ritorno al passato. Fede e ragione sono entrambe indispensabili: «Due ah con le quali lo spirito s'innalza verso la contemplazione della verità». Ciascuna contribuisce al fiorire dell'altra e quindi per ciascuna è necessario che l'altra si esprima con forza. «E' illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell'essere». Il Papa sta parlando della fede in Dio e della ragione che esplora temi teologici, ma quel che dice ha un significato generale: senza la solida, indiscussa fiducia fornita da un'elementare certezza la ricerca si avvita su se stessa, e senza la struttura forni- ta da questa ricerca quella fiducia rimane afasica e brutale. Ben si capisce dunque l'encomio della filosofia medievale (Tommaso d'Aquino è citato come «guida e modello») e la ferma stigmatizzazione di tutte le correnti del pensiero contemporaneo (eclettismo, storicismo, scientismo, pragmatismo e l'onnipresente nichilismo). Né sorprende l'invito ad abbandonare ogni discorso di «fine della metafisica» e dedicarsi senza esitazione ai problemi tradizionali dell'essere, della verità, del fondamento e «del senso ultimo e globale della vita». Messa così, è una posizione di innegabile ingenuità. Giovanni Paolo II afferma: «Voglio esprimere con forza la convinzione che l'uomo è capace di giungere a una visione unitaria e organica del sapere». Ma, per quanto espressa con forza, una convinzione è pur sempre un fatto soggettivo, incapace di mediare tra la personale certezza e la verità oggettiva. Sarebbe naturale liquidarla come un pio desiderio, doverosa manifestazione dei valori di un principe della Chiesa. Questa naturale tentazione, però, è forse ingiustificata, perché nell'enciclica c'è dell'altro. Quello del Papa è un linguaggio militante. Parla di sfida, coraggio, passione e audacia. Di speranza e di martirio. «Bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi». Leggendo passi simili, viene da pensare che, per chi ha un'innocente certezza, il coraggio non è necessario: è una virtù che si manifesta di fronte al pericolo, al rischio, al terrore deh'annullamento totale, della perdita assoluta di senso. E subentra allora l'inclinazione di attribuire al Santo Padre un messaggio ben diverso da quello più ovvio, e non lontano da qualcosa che Hegel avrebbe anche potuto dire. C'è un'infanzia della ragione, un sereno abbandono alla benevolenza dell'essere; e c'è una sua adolescenza, in cui vengono al pettine ogni sorta di nodi e tutto sembra impossibile e angoscioso. Poi c'è una sua maturità, in cui ci si assume il carico della propria fede e su questa si costruisce, con coraggio, il progetto di una vita davvero umana (cioè divina?). E' di questa maturità che abbiamo bisogno oggi: di una fede/certezza «adulta» e consapevole. Non ne possiamo più delle proteste dei ragazzini cui qualcuno ha finalmente detto che Babbo Natale non esiste. Ermanno Bencivenga Sopra, San Tommaso; a sinistra Hegel La ricerca di una «certezza» adulta e consapevole, un linguaggio militante che parla di sfida, coraggio, passione FIDES ET RATIO Giovanni Paolo II Presentazione di Dionigi Tettamanzi Introduzione a cura di Rino Fisichella Piemme pp. 168 L. 12.000