HITLER, L'IMBIANCHINO CHE SEDUSSE I TEDESCHI di Angelo D'orsi

HITLER, L'IMBIANCHINO CHE SEDUSSE I TEDESCHI HITLER, L'IMBIANCHINO CHE SEDUSSE I TEDESCHI Come nacque il «mito» del Filhrer N sondaggio effettuato tra la popolazione dell'allora Germania Ovest nel 1979-80, fra cittadini elettori, attribuiva al 14% degli intervistati l'idea che «per il bene di tutti» si dovesse «avere di nuovo un leader che governi con mano forte». Dietro quel «di nuovo» si affacciava, sinistra, la silhouette del Fuhrer. Emerso praticamente dal nulla dal marasma della Germania posta in ginocchio dalla sconfitta, Adolf Hitler giunge al potere il 30 gennaio 1933, e immediatamente ha inizio la costruzione del mito. Il primo indizio è la gigantesca fiaccolata in onore del nuovo cancelliere del Reich, organizzata dal gauleiter di Berlino, un signore il cui nome diventerà tristemente famoso, Joseph Goebbels. Proprio costui sarà il primo, costante e fantasioso artefice della mitopoiesi hitleriana: Adolf Hitler è il «cancelliere del popolo», l'uomo buono, semplice e generoso figlio della madreterra tedesca, e in essa vengono piantati, in suo nome, ben presto querce e tigli, alberi mutuati dalla simbologia pagana degli antichi Germani. Sicché, mentre il timido signore dai corti baffi, l'ex-imbianchino Hitler, procede a una rapida quanto sistematica distruzione della democrazia, riempiendo le galere di oppositori, smantellando le fondamenta stesse dello Stato liberale, gli efficientissimi meccanismi della propaganda procedono a una precoce santificazione in vita. I compleanni di colui che è già per tutti semplicemente «il Fuhrer» divengono solennità nazionali, con strade e piazze adorne di festoni con scritte apologetiche. E, stando ai documenti che copiosamente lo storico inglese Kershaw (già noto per i suoi lavori su Weimar e nazismo) scova e utilizza con sagacia, l'entusiasmo popolare diventa una sorta di malattia contagiosa. Nel breve volgere di un anno - il primo anno di potere nazista Hitler non è più il capo di un partito, che tenta di conquistare tutti i gangli dello Stato, ma è il simbolo vivente dell'unità del Volk, il popolo stesso fatto uomo. Goebbels è il regista instancabile, Hitler il degno attore di questa tragica farsa, davanti alla quale le masse tedesche vanno in visibilio, in un crescendo che contagia tutti gli strati della popolazione, compresi intellettuali e moltissimi ex-oppositori politivi. Migliaia di lettere si riversano negli uffici hitleriani, gente di ogni condizione confessa ammirazione, devozione, affetto per il <C;;po» che ama i bambini, per l'uomo inflessibile coi nemici del popolo, che sa essere il più umano dei benefattori, sollecito soprattutto ai bisogni dei semplici e dei poveri. La popolarità incomincia a trasformarsi in culto, ma a discapito del partito nazionalsocialista: ossia tanto più cresce il mito di Hitler, tanto più calano, nell'opinione diffusa, i valori accreditati al suo partito. La «notte dei lunghi coltelli» (30 giugno '34), in cui Hitler fa massacrare l'intero gruppo dirigente delle SA, costituito da suoi potenziali oppositori, invece di segnalare la cinica e spietata pericolosità del cancelliere, ne aumenta a dismisura la fama. D'ora in avanti, tutto il bene discende da Hitler, mentre spesso e volentieri nel partito si vuole vedere l'origine di ogni inefficienza, di ogni errore, di ogni difficoltà. Le imprese belliche porteranno all'apogeo nell'immaginario collettivo il «Fuhrer», cui la propaganda attribuisce, accanto alle ormai acquisite doti politiche e umane, quelle di geniale tattico e stratega dell'arte militare. Ma sarà proprio su questo terreno che il mito incomincerà a sgretolarsi: la battaglia si Stalingrado (settembre '42 gennaio '43), con la clamorosa disfatta delle truppe germaniche, è indicata, correttamente, da Kershaw come l'inizio della fine; la fine del sogno del dominio tedesco nel mondo, ma anche la fine del mito dell'infallibilità del «Fuhrer». Un po' come accade nell'Italia mussoliniana, incominciano a circolare le dicerie che spiega¬ no gli scacchi tedeschi con «Lui non sa», «è circondato di traditori e incapaci» e via seguitando. Tuttavia, come Max Weber ha insegnato, il potere carismatico non sopravvive all'insuccesso. Gli ultimi due anni vedono la crisi dell'intera leadership nazista, davanti a cui la campagna antisemita, avviata molto per tempo (la lotta all'ebraismo coincide per Hitler con la lotta al bolscevismo, a partire dalla identificazione di Marx nell'«ebreo»), non sarà un antidoto efficace, perché, almeno stando alla ricostruzione di Kershaw, la «questione ebraica» non è al primo posto nei fattori capaci di determinare la pubblica opinione, pur essendo l'antisemitismo - accanto alla Lebensraum, la teoria della necessità per la conquista di uno «spazio vitale», per la Germania - la principale delle «ossessioni ideologiche» di Hitler. Il suo mito, fondato sull'inganno sistematico (e sull'autoinganno, giacché Hitler incomincerà davvero a credere di essere un semidio invincibile), se inizialmente favorisce un'adesione compatta intorno al Capo del popolo tedesco, alla lunga si rivelerà un fattore di debolezza e di disgregazione del regime, facilitandone il crollo rovinoso. C'è, naturalmente, una lezione in questa storia; l'autore pur ritenendo (ma non condividiamo il suo ottimismo) «estremamente improbabile» la ricaduta in nuove forme di fascismo nel mondo occidentale, invita a sviluppare «il più alto livello possibile di disincanto e di consapevolezza critica come sola difesa contro le immagini smerciate da quanti, oggi e in futuro, rivendichino la leadership politica». Angelo d'Orsi Goebbels Con Goebbels regista, un'efficiente macchina propagandistica fondata sull'inganno IL MITO DI HITLER lan Kershaw Bollati Boringhieri pp. 331 L 60.000

Luoghi citati: Berlino, Germania, Germania Ovest, Italia, Stalingrado, Weimar