La lezione eli un grande direttore di Giulio De Benedetti

La lezione eli un grande direttore RITRATTO DI UN UOMO INTRANSIGENTE La lezione eli un grande direttore «Pretendeva onestà, concisione e chiarezza» LM ULTIMO suo giornale ™ Giulio De Benedetti lo chiuse a 78 anni il 3 dicembre 1968. Verso le 22 - allora ero responsabile del servizio Interni - gli portai il titolo a sei colonne di prima pagina: lo lesse attentamente, lo soppesò, prima di approvarlo, come sempre aveva fatto, poi mi diede un foglietto con scritto: «Il dialogo continua». «Lo faccia comporre a una colonna, è il titolo del mio saluto». Dava del lei a tutti, meno che al segretario di direzione Fausto Frittitta e all'inviato Francesco Rosso. Era un direttore difficile, autorevole e autoritario. Pretendeva molto, perché dava molto. Lasciò un'impronta chiara al giornale: «Ho seguito una linea politica, scriveva nel suo commiato, ispirata a principi di libertà e di giustizia. Soprattutto di tolleranza: il rifiuto del fanatismo è il fondamento immutabile della pace». E più avanti: «Nei fatti più umili della vita quotidiana, ho sempre aiutato i più poveri, i più deboli, i più disperati». Discuteva con i capi dei servizi gli accadimenti del giorno, dopo sceglieva e indicava chi doveva occuparsene. Controllava tutto e tutti. Era intransigente, il prodotto doveva essere come lo aveva pensato. Per cinque volte fece rifare l'articolo con il quale uno scrittore affermato - se la memo> ria non mi tradisce Enrico Ema nuelli - iniziava la sua collabora zione a La Stampa. Quando Rie cardo Bacchelli mandò un artico lo su Stalin, De Benedetti gli tele fonò che non andava bene, che doveva rivederlo, rifare l'attac co, e lo avvertì che gli avrebbe spedito le bozze a Milano. Le bozze degli articoli che non pas savano venivano poste in un cas setto con impressa la parola «ghiacciaia». Al vedere quella parola Bacchelli si offese: in ghiac ciaia, fece sapere, si mettono cadaveri. E troncò la collabora zione. De Benedetti era pronto a per dere qualsiasi firma, ma non ri nunciava al suo diritto-dovere di controllare e giudicare. Quando fu assassinato Kennedy, il 22 no vembre del '63, Enzo Biagi si tro vava negli Stati Uniti. «Mi mandi un articolo di atmosfera: come il Paese vive questa tragedia». Biagi era in una piccola sperduta località. Entrò in un pub, un'osteria, e constatò che la gente continuava a bere, a giocare, a parlare dei propri interessi. E così scrisse. De Benedetti telefonò adirato cheda lui si aspettava ben altro. La Stampa perse un altro collaboratore. Correggeva sulle bozze umide che gli arrivavano dalla tipografia gli articoli della cronaca cittadina, dei fatti principali, le note politiche. Pretendeva onestà, concisione. E chiarezza, che per lui significava rispetto per il lettore. Una notte, dopo la prima edizione, che allora si chiudeva verso l'una, mi domandò se avessi letto il fondo di Libero Lenti. Era il nostro collaboratore economico, un noto docente dell'ateneo milanese. Risposi che mi pareva un po' faticoso, che però... Mi troncò la frase: «Si ricordi che il lettore se trova faticoso uno scritto lo salta. Riveda il pezzo, che lo possano capire tutti». Difendeva la sua autonomia come un caposaldo della sua direzione. A Vittorio Gorresio, che gli domandava come mai non frequentasse i politici, rispose: «Meno li vedo e più è facile sottrarmi alla tentazione di compiacerli: magari soltanto per quella stanchezza che potrebbe venire a uno che si trova tanto circuito». Indipendenza dal palazzo, indipendenza dalla proprietà. Nei giorni di Italia '61 mi trovai a colloquio con il giovane Giovanni Agnelli. Ne uscì una intervista, la prima, credo, che concedesse. Felice la scrissi e la portai a De Benedetti. «La lasci sul tavolo», non aggiunse parola. Non la pubblicò quel giorno, non la pubblicò il giorno seguente, poi la fece riscrivere come articolo da Carlo Casalegno e la pubblicò in crona¬ ca. Agnelli era l'azionista del giornale. Ma De Benedetti intese dimostrare che nel giornale era il direttore che decideva chi intervistare, su quale argomento, a chi affidare l'incarico. Ci volle del tempo prima che mi perdonasse quella presunzione. Se da lui ho imparato uno stile, come altri giornalisti, la lezione è costata sofferenza, e tanto sentimento di ribellione. Era capace di telefonarmi a casa per una imprecisione. In un titolo a una colonna avevo scritto che il ministro Pella sarebbe arrivato a Caselle alle 15,15 mentre nel pezzo si diceva alle 15,20. «Come vuole che il lettore ci creda se noi per primi siamo in contraddizione?». Aveva una grande sensibilità per la notizia. Il corrispondente di Pinerolo aveva inviato poche righe su una nevicata che aveva isolato un paese sopra Fenestrelle. Mancavano due giorni a Natale. «Porti giocattoli e panettoni per tutti i bambini, porti quel che vuole lei, poi scriva un pezzo natalizio. Un pezzo caldo. Il giornale è fatto non solo di grandi avvenimenti, ma anche di episodi che possono sembrare modesti ma che toccano i lettori». Un reparto di alpini, le racchette ai piedi, con una marcia faticosa portarono a quel paese giocattoli, cibi, indumenti. Aveva il coraggio delle iniziative: per Italia '61 riuscì a far esporre migliaia di tricolori dalle finestre di una Torino che viveva un clima di disattenzione patriottica. La sua sintonia con i lettori gli suggerì la rubrica «Specchio dei tempi», rubrica che è stata oggetto di interpretazioni sociologiche in Italia e all'estero. La considerava la sua creatura prediletta, e la curò per tredici anni dal 17 dicembre 1955. Il 3 dicembre 1968, chiusa la prima edizione, De Benedetti, tornando dalla tipografia dove, come tutte le notti, aveva controllato pagina dopo pagina, trovò i redattori davanti al suo ufficio. Nessuno parlava. Ci guardò. TJn lungo interminabile silenzio. «Grazie, vi lascio un giornale in espansione, continuate così». Prese il cappotto, se lo infilò e si avviò all'ascensore. Era entrato nel giornalismo a 21 anni come stenografo e arrivò alla direzione con enormi sacrifici, superando gli anni tragici delle leggi razziali. E' bene che lo ricordi una scuola della sua città natale. Giovanni Trovati Pronto a perdere qualsiasi firma ma non rinunciava al suo dirittodovere di controllare e giudicare Nel suo articolo di congedo scrisse: «Ho sempre aiutato i più deboli e i più disperati»

Luoghi citati: Fenestrelle, Italia, Milano, Pella, Pinerolo, Stati Uniti